Alex Levin: Natura morta con Torah
ORARI DI SIRACUSA
19.30 - 20.32
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PARASHAH EMOR: Vayqra 21 - 24
HAFTARAH Yechezqiel 44, 15-31
In questa
Parashah vengono date le festività di Israele. Fra queste Shavuʽot. Poiché è la nostra prossima festività
colgliamo l’occasione per parlarne.
Shavuʽot cade il 6 del mese di Sivan, ma
questa data non è stabilita dalla Torah. Quest’anno, nel calendario gregoriano è mercoledì 4 Giugno. È una festa prescritta
dalla Torah (Devarim 16:16) ed è una delle Sheloshà Regalim, ovvero di quelle
feste che comportavano il pellegrinaggio a Yerushala’m, insieme a Pesach e
Sukkot. Shavuʽot è diversa
dalle altre Sheloshà Regalim, infatti dura un sol giorno, ovviamente due in
Galut, in diaspora (per la verità il Chatam Sofer dice che in effetti non ci sarebbe
la necessità di un secondo giorno a Shavuot perché cade 50 giorni dopo Pesach e
conoscendo la data di Pesach non c’è il dubbio dell’errore; ma aggiunge che in
questo caso il precetto rabbinico mira a rafforzarci per due giorni nel
ricevere il Mattan Torah). Questa
brevità rispetto a Sukkot e a Pesach accentua ancora di più la sua importanza proprio per il rapporto diretto
con D-o nell’evento più importante della storia dell’umanità, ma è anche vero
che questa festa viene preparata, potremmo dire maturata per tutto il periodo
del ʽOmer.
Shavuʽot letteralmente significa settimane, ma al tempo
dell’ebraismo greco fu denominata Pentecoste. Sette sono infatti le settimane
che la separano da Pesach, cinquanta sono i giorni. Nella Torah si chiama ʽAtzeret
che significa conclusione, ovvero fine dei quel periodo di conteggio del ʽomer detto sefirà, che rappresenta quel tempo di
rieducazione, di formazione dell’uomo al fine di essere pronto per ricevere
dono della Torah, il Mattan Torah, che è nel giorno di Shavuʽot ricordiamo, e che è il momento centrale della
rivelazione ebraica. Dobbiamo intenderlo anche come progressiva purificazione,
che nella nostra società deve comportare anche una disintossicazione da tutti
gli elementi di corruzione del nostro quotidiano. Essere pronti al dono della
Torah non è così semplice. Pensate al vitello d’oro, evento idolatrico
possibile solo perché una parte del popolo che era fuggito dall’Egitto non era
in condizioni di ricevere la legge di D-o. Essere fedeli della Torah non è
semplice in un contesto culturale e sociale come quello in cui ci troviamo e
con tutte le tentazioni di facile idolatria che ci vengono offerte. Dice
Benamozegh “La prima condizione per farsi dappresso alla collina è l’animo
libero, padrone di sé. Indipendente da ogni mortale sudditanza”. Jonathan
Pacifici scrive che “studiare la Torah è un uccidere il proprio ego. Per
mantenere la Torah è necessario un processo rieducativo alla ricerca del proprio
io che parte necessariamente dalla Torah del Signore per giungere alla nostra
Torah”.
Benamozegh
aggiunge “Ma Israele non solo è libero, ma è uno! … la rivelazione bisogna
guardarla, intenderla, interpretarla non con gli occhi, non con la mente
dell’individuo, ma con quelli della nazione, non col criterio scismatico,
egoistico, dissolutivo di ogni singolo intelletto, ma con quello comune,
sintetico, collettivo del popolo, di tutti i tempi, di tutti i luoghi … Davanti
alla rivelazione deve sparire l’individuo e restare il popolo”. In queste
parole c’è il senso ultimo di Israele, ma con l’umiltà di sapere che essere il
popolo eletto significa portare avanti un ministero, una missione di salvezza
per l’intera umanità. El ʽolam, D-o
dell’universo! Come Adam fu simbolo e fonte di tutto il genere umano, il
ritorno all’Adam Kadmon, l’Adam archetipale, l’antico Adamo unitario, sarà per
tutti gli uomini perché il Signore a tutti gli uomini ha dato la sua Torah.
Come
sempre la festa religiosa, di definizione rabbinica, si innesta su una
antecedente festa legata al ciclo della natura e dell’agricoltura. Per questo
motivo ha altri nomi: Chag haBikkurim ovvero festa delle primizie, perché in
questo giorno si portava al Tempio, al Bet haMikdash, il pane impastato del
frumento prodotto in quello stesso anno e le sette primizie della Terra di
Israele, cioè frumento, orzo, uva, melograno, datteri, fichi, olive.
Si
chiama anche Chag haZakir cioè festa della mietitura e in questo giorno è prescritto
di leggere la Meghillat Ruth, il cui narrato si svolge proprio al tempo della
mietitura e che per la nostra Comunità ha un valore particolare in quanto
racconta di quel legame miracoloso che conduce le persone alla fede ebraica. La
Meghillat Ruth è un testo che troviamo fra gli agiografi; racconta, come
sapete, la storia di Ruth la Moabita che va in sposa ad un Ebreo. Rimasta
vedova decide autonomamente di condividere la vita di Israele restando con la
suocera Noemi, abbracciando la fede ebraica e successivamente si risposa con un
altro Ebreo, Boʽaz, dando
origine a quella stirpe da cui nascerà il Re Davide e dalla quale, secondo i
nostri Maestri, discenderà il Mashiach.
Ma
il carattere principale per il quale noi festeggiamo Shavuʽot è perché in questo giorno noi ricordiamo e
celebriamo -ed ecco un altro nome di Shavu’ot- il tempo del dono della Torah:
Zeman Mattan Toratenu. Questa è, come scrive Benamozegh, la ricorrenza della
Rivelazione, l’eterna verità del Sinai. La grande teofania in cui D-o, per
bocca di Moshè, “parla a tutti noi, nella lingua che ognuno di noi sa
comprendere, che ci entra dentro nel cuore, nel midollo della ossa” perché,
scrive ancora il grande rabbino “la verità si esprimeva nel misurarsi e
proporzionarsi e modularsi secondo le forze fisiche e morali di ognuno, secondo
il sesso e l’età, l’intelletto e le condizioni”. Dicono i dottori del Talmud
che non fu solo l’ebraico la lingua della rivelazione sinaitica ma settanta
lingue, tutte le lingue della terra degli uomini cosicché tutti la
comprendessero”. Vi leggo questo
passo dalla prima delle cinque lezioni di Benamozegh su Shavuʽot che potete
trovare in un volume edito dall’Editore Belforte:
“È infine dalla Tradizione che sappiamo come tutto nella
Rivelazione del Sinai esprimeva quella
prerogativa grande, suprema, unica, che ha l’ebraismo di farsi tutto a tutti;
di farsi come Elia piccino coi piccini per dar loro vita, di essere latte pei
bimbi, miele pei giovani, vino per i vecchi, olio per i malati, di essere come
la manna che prendeva tutti i sapori per contentare tutti i gusti, di essere
poesia per i poeti, storia per gli storici, legge per i legali, erudizione per
gli eruditi, morale per i filantropi, teologia per i teologi, di avere un
linguaggio per il popolo, un altro per i dotti, un terzo pei positivi, un
quarto per i contemplativi, di essere letterale, anagogico, allegorico,
teologico (ricordate i 4 livelli Peshat, Remez, Darash, Sod, insomma il Pardes)
e nel Peshat cento forme, e nel Remez e nel Daresh e nel Sod cento e cento
forme e altre così e senza fine quante sono le generazioni e gli individui che
si succedono, sempre restando uno, sempre lo stesso…” Ecco, vedete,
il dono della Torah è per ciascuno di noi “come
l’acqua piovana che scende dal cielo e diventa vino nelle viti, olio nelle olive,
sapori umori e odori e farmaci infiniti nelle infinite famiglie di frutti di
fiori…”
Ecco
che questo ricordare il Mattan Torah è responsabilità di ognuno di noi, perché
tutti personalmente siamo stati chiamati da D-o a testimoniare il dono di
esistere e di vivere secondo le leggi della Torah.
A
proposito di fiori, sapete che a Shavuʽot è
tradizione, secondo il minhag di molte comunità, di portare fiori nelle case e
in Sinagoga per ricordare con gioia il dono della Torah.
La
tradizione vuole che le parole divine fossero accompagnate da un profumo, una
fragranza celeste che riempì il creato, ma non è questa l’unica motivazione a
questa usanza che non sembrerebbe specificatamente ebraica. Pensate ad esempio
come nei cimiteri ebraici non sia consentito l’omaggio dei fiori proprio perché
simbolo di esteriorità. Va detto comunque che nel medioevo, in testi
cabalistici ed in particolare nello Zohar, la rosa assume un significato
particolare con corrispondenze fra la disposizione dei petali ed alcuni versi
di Bereshit, nella costruzione di un fiore simbolico. Scrive Giulio Busi che
nel Tiqqune ha-zohar, un testo degli inizi del trecento, l’autore determina una
relazione fra i componenti della corolla e le lettere del Tetragramma in una
lettura rovesciata. Scrive Busi: “Ben lungi dall’essere il risultato di un
semplice capriccio simbolico, questo Nome speculare è in realtà del tutto
coerente con lo statuto simbolico della
rosa mistica, segno visibile della sefirat Malkhut (del Regno) che secondo la
tradizione cabbalistica è lo specchio opaco nel quale si riflette l’emanazione
superna: la rosa accoglie metaforicamente la potenza divina e ne manifesta
l’intensità”.
Ancora
un Midrash costruito sul verso “Come una rosa fra le spine” (Shir Hashirim 2:2)
racconta di come un giardino incolto fu salvato in virtù del fatto che un re vi
trovò una rosa profumata e se ne deliziò. Dice il midrash: “Analogamente, tutto il mondo non fu creato se non in
grazia della Torah. Dopo 26 generazioni il Santo, Benedetto Egli sia, osservò
il mondo, per rendersi conto di ciò che aveva
prodotto, ma non vi trovò che acqua: la generazione di Enoch: acqua;
allora chiamò i distruttori perché venissero a demolire il mondo, ma in quel
momento scorse una bella rosa, cioè Israele, la colse, ne gustò il profumo
quando pronunciò i dieci comandamenti, se ne deliziò quando tutto Israele
disse: “faremo e ascolteremo ciò che D-o
ha comandato” (Shemot 24:7).
Allora il Santo, Benedetto Egli sia, disse: “Per questa rosa sarà
risparmiato il giardino, vale a dire: per merito della Torah e di Israele il
mondo sarà salvo” (Vajkra Rabba 23).
Come
dicevamo l’addobbo di fiori è relativo al minhag di ogni comunità. A Roma Shavuot viene anche chiamata Pasqua
Rosa.
Poiché
questo costume deriva per lo più da midrashim, è ovvio chiedersi se è lecito
derivare una halachah da un Midrash. A tale proposito Rav Somekh risponde che
questo è possibile purché “non sia in
contraddizione con altre fonti halachike”.
A
Shavuʽot è consuetudine comune consumare latticini. Questo è dovuto, come è da
tutti accettato, al fatto che Israele è il paese del latte e del miele ed è
questa la promessa che fa il Santo Benedetto al Suo popolo e la Torah è lo
strumento che costruisce Israele. La tradizione dice che lo studio della Torah
ha il sapore del latte e del miele; ma si dice anche che il latte è l’alimento
materno e il popolo di Israele è come un bambino cui la Torah dà nutrimento.
Un’altra
spiegazione è riferita al fatto che quando gli Ebrei ricevettero la Torah non
erano ancora esperti della shechitah, la macellazione rituale e quindi si
astennero dal mangiare carne. Qualcuno aggiunge che il valore numerico della
parola chalav (latte) è 40 secondo la gematria, come i 40 giorni trascorsi da
Moshè sul Sinai.
Il
latte è bianco e il bianco è anche il colore della trascendenza,
dell’elevazione spirituale, della purificazione ed è questa la condizione in
cui noi dobbiamo giungere a questo appuntamento con la redenzione e la
sacralità. Questi cinquanta giorni che ci hanno condotti da Pesach al Mattan
Torah sono un periodo di costruzione spirituale che ci conduce dal rosso del
sangue di Pesach al bianco di Shavuʽot. Dalla
Testimonianza che il Signore ci ha condotti fuori da ogni Egitto alla nostra
confermazione nella sua legge.
Potete
trovare anche nello Zohar un capitolo in qualche modo connesso con queste
tematiche: Del bianco e del rosso delle rose e del profumo della preghiera. L'edizione critica del testo completo per cura di Giulio Busi è edita da
Einaudi nella collana I Millenni.
Shavuʽot è giorno festivo per cui si seguono tutte le
regole dello yom tov, con l’accensione dei lumi, il Kiddush e l’Havdalà.
La
particolarità è che la prima sera di Shavuʽot si attende la comparsa delle tre stelle prima
di recitare Arvit per fare in modo che il conteggio del ʽOmer sia completo, come è scritto: “Saranno
sette settimane complete” (Vaykrà 23:15).
Chiudiamo
con questo insegnamento tratto dal
Talmud Bavli, Shabbat 31°:
Una volta un pagano andò da Shammaj e gli disse:
“Mi converto al giudaismo a condizione che tu mi insegni tutta la Torah mentre io sto su un piede solo”.
Con un bastone in mano Shammaj lo cacciò subito.
Una volta un pagano andò da Shammaj e gli disse:
“Mi converto al giudaismo a condizione che tu mi insegni tutta la Torah mentre io sto su un piede solo”.
Con un bastone in mano Shammaj lo cacciò subito.
Il
pagano andò allora da Hillel e di nuovo espresse il suo desiderio:
“Mi
converto al giudaismo a condizione che tu mi spieghi tutta la Torah mentre sto
su un piede solo”.
Hillel lo accolse nel giudaismo e lo istruì in questo modo:
“Quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri! Questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va e studia!”.
Hillel lo accolse nel giudaismo e lo istruì in questo modo:
“Quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri! Questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va e studia!”.
Shabbath
shalom
Israel
Eliahu
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