giovedì 25 luglio 2013

SHABBATH 20 AV 5773/ 26-27 LUGLIO 2013



ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  19.53
Havdalah           20.54
Per le altre località clicca  Q U I


PARASHAH ʽEQEV: Devarim 7,12 - 11,25
HAFTARAH: Yeshaʽyahu 49,14 - 51,3

In questa parashah emerge ancora una volta il progetto religioso e politico di Israele e la raccomandazione di Moshè ad una coesione di tutti gli Ebrei sotto lo stesso vessillo universale che è la legge della Torah.
L’idea di Israele, secondo la visione di Maimonide, è quella di una identità collettiva che, risolta la frammentazione del principium individuationis, si compatta sulla idea aristotelica intesa come struttura, come ossatura.
In questa idealità si intravede, secondo Martin Buber, la secolarizzazione socialista della escatologia ebraica. Escatologia religiosa certo, che trascendendo il messianismo si ricompone in una utopia da realizzarsi nella storia. Per questo il modello collettivistico del sionismo primitivo realizzato nel kibbutz non rimanda solo ad un modello utopico comunitario ma ad un’idea che trova suo fondamento nel progetto divino su Israele; progetto che non è tensione ad un futuro ultramondano ma concreta realizzazione in terra di un mondo di giustizia sociale che da qualche millennio si propone come modello plasticamente sopravvivente alle devastazioni e ai mutamenti della storia e delle idee che sono fiorite e miseramente scomparse nell’avvicendarsi delle epopee umane. Questo modello, quello che la legge della Torah dispone, è stato trafitto da ideologie che poco hanno a che fare con lo spirito di una religiosità, che trova compimento in Israele e non in universalismi transnazionali.

“Il messianismo si è affermato -scrive Lévinas- soprattutto ad opera dei profeti, come irresistibile spinta verso un futuro di giustizia qualitativamente diverso dal presente, capace di orientare la storia e di alimentare la speranza di redenzione”.
Buber pensa che questo sogno escatologico possa essere realizzato nella storia: “Escatologia significa compimento della creazione, utopia esplicazione delle possibilità di un ordinamento giusto latenti nella convivenza umana. Più importante è un’altra differenza. Per l’escatologia profetica, anche se nella sua forma elementare, si assegna all’uomo una rilevante parte attiva nell’avvento della redenzione, l’atto decisivo viene dall’alto; per l’utopia tutto è soggetto alla cosciente volontà umana, tanto che si potrebbe addirittura definirla come un’immagine della società in cui non vi sono altri fattori all’infuori della consapevole volontà dell’uomo”.
Dobbiamo realizzare politicamente il regno di D-o fra gli uomini, concretizzare le istanze che non sono solo religiose, contenute nella Torah, come concreta estensione di una teologia sociale. La religione deve essere la garanzia della politica, il suo scheletro. Ognuno di noi, nel compimento di Israele, deve essere strumento della volontà divina e della sua legge, i cui dettami sono assoluti e perenni.
Se secondo Buber uno stato non è mai morale, se è necessario evitare le pastoie di uno stato etico è comunque necessario che il fondamento di uno stato Ebraico debba essere una legge che fondi sé stessa sugli assoluti teologici. I Devarim sono divisi chiaramente su quanto dobbiamo a D-o e quanto dobbiamo agli uomini. Se stessimo su un piede solo ad ascoltare la Torah, come sapete, faremmo presto. La giustizia sociale è riflesso e conseguenza di quanto è espresso negli assoluti che abbiamo riletto nella Parashah della scorsa settimana. Nulla da togliere, nulla da aggiungere. Se l’osservanza da parte dell’intero Israele fosse totale avremmo concretizzato un processo di giustizia sociale, politica e religiosa.
Shabbath shalom
Israel Eliahu

domenica 21 luglio 2013

TU BEAV 5773 / 21-22 luglio 2013


La figlia del Re chiede un abito alla figlia del Sommo Sacerdote, la figlia del Sommo Sacerdote alla figlia del vice-Sommo Sacerdote, la figlia del vice-Sommo Sacerdote alla figlia del Sacerdote Unto, la figlia del Sacerdote Unto alla figlia di un Sacerdote semplice e tutto Israele chiedono una all’altra in maniera che non si debba vergognare chi non ha abiti adatti alla circostanza (TB Taanit 31a).

venerdì 19 luglio 2013

SHABBATH 12 AV 5773 / 19-20 LUGLIIO 2013

Herman Struck: Il saggio

ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  19.58
Havdalah             21.01
Per le altre località clicca  Q U I

PARASHAH VAETHCHANNAN: Devarim 3,23 - 7,11
HAFTARAH:Yeshayahu 40, 1-26

I CONTENUTI DELLA PARASHAH
Moshè supplica hS di permettergli di passare il Giordano; esortazione ad osservare la Torah e condanna dell'idolatria; città rifugio; i Dieci Comandamenti; prima parte dello Shemaʽ; rapporti con i popoli pagani.

SHABBATH SHALOM! 

domenica 14 luglio 2013

TISHA BEAV 5773 / 15-16 LUGLIO 2013

Francesco Hayez: Distruzione del Tempio di Gerusalemme, 1867


O R A R I   D I   S I R A C U S A

Inizio digiuno 15 luglio ore 20.18;

fine digiuno 16 luglio ore 21.03.
Per le altre località clicca  Q U I
 
L E T T U R E  
SHACHRITH
Parashah: Devarim 4, 25-40
Haftarah: Yrmeyah 8,13 - 9,23

MINCHAH
Parashah: Shemoth 32,11-14; 34,1-10
Haftarah: Yeshaʽyah 55,6

Mattina e sera si legge il libro Ekhah del Profeta Yrmeyah.
Durante la ricorrenza valgono le restrizioni dei giorni di chol hamoʽed e in più è proibito: mangiare e bere, indossare scarpe di pelle, lavarsi e usare creme e unguenti, indossare il taleth e i tefilim a shachrith (permesso farlo a minchah), avere rapporti sessuali e manifestazioni di affetto, fare festeggiamenti, leggere e studiare, se non testi di argomento triste e luttuoso; è uso sedere in terra o su sgabelli bassi. 


T Z O M    Q A L

giovedì 11 luglio 2013

SHABBATH 6 AV 5773/ 12-13 LUGLIO 2013


ORARI SI SIRACUSA
Accensione  ore  20.01
Havdalah           21.05
Per le altre località clicca  Q U I

PARASHAH DEVARIM: Dev. 1,1 - 3,22
HAFTARAH: Yeshaʽyahu 1,27

Comincia il quinto libro della Torah: Devarim. Come è tradizione ebraica riceve il nome
dalla prima espressione del testo, appunto devarim, parole. È un libro fondamentale
per la riflessione teologica su Israele, non solo perché libro della memoria, poiché vengono riprese tutte le categorie della Torah, ma in esso vengono rilette e approfondite. È un’autoreferenzialità della Torah che racconta sé stessa, l'insegnamento, attraverso la memoria di Moshè. Al centro di Devarim sta il concetto stesso, l’essenza della Torah.
Il quinto libro della Torah è anche il paradigma dell’eredità che Israele comanda a sé stesso. Di perpetuare la memoria, non come pensiero ereditato ma come forza attiva che testimonia
l’intervento salvifico di D-o nella storia del popolo ebraico e che deve essere trasmessa ai figli,
generazione dopo generazione come pulsare di un unico cuore che attraversa i millenni.
Vi consiglio di leggere il commento di Rashi a Devarim.
Shabbath shalom
Israel Eliahu

venerdì 5 luglio 2013

SHABBATH 28 TAMMUZ 5773 / 5-6 LUGLIO 2013

Anna Bialecha: I rabbini, 2013

ORARI SI SIRACUSA
Accensione  ore  20.03
Havdalah             21.08
Per le altre località clicca  Q U I  

PARASHOTH MATTOTH e MASSʽÈ: Bemidbar 30, 2 - 32, 42; 33 - 36
HAFTAROTH: Yrmeyah 1, 1 - 2, 3; 2, 4-28; 3, 4.

La parola neder che noi traduciamo come voto significa promessa solenne (viene utilizzata insieme ad altri sinonimi come alah - giuramento, issar - astensione, shevuʽah - giuramento) come offerta di una privazione o del compimento di una mitzvah in cambio di una grazia o della realizzazione di un beneficio. Dunque la parola neder compare composta con altri verbi in 91 diversi contesti da Bereshit a Qohelet. L’impegno solenne deve essere assolutamente mantenuto, anche se esiste la possibilità di sciogliere un voto. Deve essere ottemperato perché fatto direttamente con il Santo Benedetto Egli sia. Per questo si chiede che chi fa il voto sia una persona di grande integrità morale, di specchiata fede e devozione e che ritenga più importante fare il voto sulla cosa e non sulla persona, proprio per avere la possibilità di adempiervi anche in condizioni di grande difficoltà. Nell’ampia letteratura sull’argomento leggiamo che i nostri Padri espressero voti, come fece Jaʽakov. Tuttavia dobbiamo considerare che se una persona è osservante delle 613 mitzvoth e del dettato della Torah non avrebbe bisogno di fare voti. Improbabile che si possa aggiungere o togliere qualcosa alla parola di D-o. Per questo è consigliato di astenersi dal formulare voti e, ancor più giuramenti, per non doversi trovare nella eventualità, per quanto remota, di non poter adempiere a quanto promesso a D-o.
“Chiunque assuma un voto è paragonabile alle persone che erigevano un altare fuori da Yerushala’m quando ne era vietata la costruzione”.
Ad esempio quando si decide di fare una tzedakà, bisogna sempre pronunciare la frase «blì neder», senza che sia un voto. Questo perché è comunque una mitzvah cui dobbiamo ottemperare, pertanto quando si ha disponibilità lo si faccia.
Allora il voto o il giuramento vengono accettati per compiere qualche mitzvah solo perché si dà per scontato che chi lo formula non sia in grado di ottemperare a quanto già è suo obbligo. In questi casi va inteso come uno sprone al compimento della mitzvah.
Bisogna sempre abituarsi a pronunciare bli neder quando si assume l’impegno a compiere un precetto, perché è un impegno che abbiamo già con Kadosh Baruch Hu e che comunque gli dobbiamo.
“I voti costituiscono una barriera per tenersi lontani da ciò che è vietato” (Avot 3, 17) dunque sono accettati qualora rappresentassero un argine, ad esempio, contro gli eccessi del bere o del mangiare. Ma già sappiamo che in tutte le cose dobbiamo essere moderati e che la giusta misura, sia nel piacere che nella devozione deve essere la linea guida sulla quale uniformarsi.
Il Kitzur Shulchan ʽArukh ci ricorda nel capitolo 67 Regole riguardanti i voti e i giuramenti che un voto ha valore solo se la bocca che lo ha pronunciato e il cuore sono concordi. Se formulo un voto ma la mia anima non è disposta la formulazione è solo una vuota formula verbale; viceversa l’intendimento spirituale senza l’espressione sonora non è valido. La voce accompagna le nostre giornate anche nella ripetizione delle berakhot.
Il voto è dunque un contratto con HaShem. Si narra di un Re di Israele che, interrogato una volta perché non gli fosse riuscita gradita la lettura del testo sacro, di un chazan che pure aveva una bella voce ed aveva cantato magistralmente le note segnate nel testo, rispose: Come potrebbe riuscirmi gradita la sua lettura se egli lo ha fatto solo per far piacere a me? Soltanto se egli l’avesse letta con l’intenzione rivolta a D-o sarebbe riuscito a farmi cosa grata” (in  Bahja’ Ibn Paquda: I doveri dei cuori). Chiudiamo questa breve nota ricordando, con Il Kitzur Shulchan ʽArukh, che per sciogliere un voto o un giuramento ci si deve recare da tre persone esperte di Torah delle quali almeno una sia competente nelle norme riguardanti i voti e sappia quindi quale tipo di voto è lecito sciogliere e quale no e con quale procedura si possa dichiararlo nullo. Ed essi lo svicoleranno dal voto. Per estinguere il voto fatto da una persona durante un sogno è opportuna la presenza di almeno dieci uomini competenti in Torah.
Shabbath shalom
Israel Eliahu

martedì 2 luglio 2013

RIMMON Racconto di Israel Eliahu



-  Seicentotredici pietre di granato, il rosso sangue di ogni corpo ucciso, sugli       altari di guerra o nei campi. Nei muri antichi dove il tramonto imporpora, per ogni madre che attende, le armi riconsegnate al bianco silenzio dell’alba.

Il seno rubizzo che stilla: latte e miele come fu promesso. Dal mare al deserto dove le parole sono trascinate dal vento, sulle dune. Le bianche conchiglie ferite, infette di sanie sulle rive di ogni oceano.

L’amaranto delle vesti e l’oro e le gemme preziose, a coprire i corpi piagati, ed unti ed odorosi di resine dei cedri che inargentano il Libano.

Seicentotredici semi di primogenitura, bianche anime, fecondate alla terra, per rinascere frutto di farina e di vino.

Il bianco delle ossa calcinate al sole, il sangue che dissetò i cani. Feroci, strapparono la pelle e ne fecero preda e vessillo.

La donna dai denti bianchi di luce e dalle labbra scure di carminio che sollevò il cuore in olocausto e lacerò i nervi che mi legavano all’altare.

Così fu il sogno di ogni negra notte. E ad ogni giorno io contavo uno di seicentotredici.

Seicentotredici tessere spaccate, la figura nel mosaico, blu del profondo ed oro di corona. Da lontano prende forma e colore. La luce taglia l’alabastro in questa città morta. Verso l’imbrunire, se ancora un umile raggio ferisce le pietre e i marmi, guardate il volto dell’imperatore che protegge le chiese di Bisanzio. Egli è morto altrove lasciando uno spavento a scolta dei bastioni.

Due di seicentotredici.

Seicentotredici spine conficcate alle tempie. Su quel legno i re hanno crocifisso i figli della nostra stirpe, disperdendoli per oceani profondi, per campagne inospitali, fra uomini dalla pelle di neve. In fortezze di ferro circondate di spine, spina per spina.

Tre di seicentotredici.

Così ogni giorno di ricchezza e virtù, di aurora in aurora, il cielo vermiglio che porta discernimento e cola come pece bruna sulle braccia aperte, sui piedi enfi dei vecchi, sulla stanchezza di ognuno. Sul dolore raggrumato che ci accompagna fino alle luce bianca che ancora inalba in lontananza.

Questo resti dei vivi, io vi comando. -

Così parlò e mesti uscimmo per le vie deserte, mai avevamo ascoltato parole come queste.

-   A noi forse, non fu dato il comprendere. - mormorò lo studente al compagno. 
La sapienza a volte è negata ai reprobi, ai giovani, ai superbi. -

-   È forse uno zaddik ? confonde il pensiero e dona quiete. – chiese Sarah.

-   Chi può dire del Rabbi forestiero, che sappiamo mai di lui ? Però le parole mulinano intorno come polvere nei cortili. La voce è profonda, e gli occhi trafiggono, se avviene di incontrarli mentre preghi. -

Rav Amran veniva da lontano, dalle terre fredde d’oriente, era giovane, il volto scuro, portava i cernecchi, come qui non si usa. Si diceva che fosse uno studioso di kabalà e conoscesse libri che altri mai avevan saputo intendere. Forse per questo le sue parole erano oscure, incomprensibili per noi, la nostra piccola comunità, da poco tempo orfana del vecchio rabbino Meir, sepolto dietro il muro con gli altri morti.

Gli uomini mormoravano, temevano che il nuovo Rabbi fosse troppo rigido e severo sugli obblighi e che sul cibo reintroducesse quelle norme che per semplificazione o dimenticanza non sempre venivano osservate.

Pochi sapevano leggere l’ebraico e si limitavano a biascicare qualche memoria sonora appresa in gioventù. Non volesse Hashem che il nuovo arrivato chiedesse a tutti di ricominciare a studiare.

Ma ci rendemmo conto in breve tempo che Rav Amran era un uomo molto riservato, quasi scontroso, non chiedeva mai aiuto alla comunità, nemmeno il denaro per la bisogna di ogni giorno; lo vedevamo camminare solo, con la testa china, come chi pensa e borbotta fra sé. Trascorreva le fredde giornate di quell’inverno chiuso fra mura, i libri aperti sul tavolo, con disegni mai visti, fatti di parole. Parole come linee, come profili.

La notte vegliava ad una luce fioca, cantava melodie senza fine, senza suono che a noi giungesse conosciuto.

Sapevamo che sarebbe rimasto poco tempo, da Roma doveva arrivare Rav Castiglioni che si sarebbe fermato con noi definitivamente. Era più rassicurante; in fondo un po’ inquietava Rav Amran, quel suo accento strano, quel suo eloquio fermo e grave; quelle parole nuove. Sembrava un uomo triste, sofferente, come chi, presago di sventure, sa di dover tacere, e dunque non si lascia comprendere, come fa un profeta, assolvendo così l’anima sua, ma non la nostra dalle antiche paure.

La partenza di Rav Amran era prevista a metà ottobre, non sapevamo per quale destinazione, qualcuno mormorava che avrebbe consacrato la vita allo studio e alla scrittura di nuovi commenti al Tanak, dacché questa era sua natura ed inclinazione; così parve giusto. Qualcuno avrebbe giurato, peccando, che Amran sarebbe salito in Eretz Israel, a Yrushalaim, o forse nel deserto, dove il pensiero si distilla e lo spirito del sacro si manifesta nelle fredde costellazioni della notte.

Così questo cogitare infine dispiacque, perché si faceva forte il timore di perdere l’opportunità di avere un sant’uomo fra noi, che avrebbe per certo dato prestigio alla nostra piccola perduta comunità. Ma altri pensieri coprivano, come coltri, questi timori. 

Venne così il giorno degli addii. Rav Amran dopo l’Arvit al Beth haKneset parlò un’ultima volta:

-   I cani leccheranno il sangue e l’acqua si tingerà di rosso dove le donne si mondano il corpo. Le ulcere si apriranno a liberare gli umori della nostra misera vita. Le tenebre saranno ornamento al vagare e una niddah, dal nulla,  feconderà di infermità la terra sulla quale ancora camminiamo. Vivremo nell’ombra, con i ferri della schiavitù ai polsi, il corvo beccherà i chicchi rossi delle melagrane e sangue sarà sui secoli che verranno. Gli animali che strisciano sulla terra edificheranno torri di veleno e la notte sarà padrona dell’universo.

      Udiremo il grido della terra un’ultima volta, poi il silenzio sarà signore del tempo. -
Amran il profeta lasciò la città nella notte. Nevicava ed una luna rossa, come mai avevamo veduto, feriva il firmamento.