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Seicentotredici pietre di granato, il rosso sangue di ogni corpo ucciso, sugli altari di guerra o nei campi. Nei muri antichi dove il tramonto imporpora, per
ogni madre che attende, le armi riconsegnate al bianco silenzio dell’alba.
Il
seno rubizzo che stilla: latte e miele come fu promesso. Dal mare al deserto
dove le parole sono trascinate dal vento, sulle dune. Le bianche conchiglie
ferite, infette di sanie sulle rive di ogni oceano.
L’amaranto
delle vesti e l’oro e le gemme preziose, a coprire i corpi piagati, ed unti ed
odorosi di resine dei cedri che inargentano il Libano.
Seicentotredici
semi di primogenitura, bianche anime, fecondate alla terra, per rinascere
frutto di farina e di vino.
Il
bianco delle ossa calcinate al sole, il sangue che dissetò i cani. Feroci, strapparono
la pelle e ne fecero preda e vessillo.
La
donna dai denti bianchi di luce e dalle labbra scure di carminio che sollevò il
cuore in olocausto e lacerò i nervi che mi legavano all’altare.
Così
fu il sogno di ogni negra notte. E ad ogni giorno io contavo uno di
seicentotredici.
Seicentotredici
tessere spaccate, la figura nel mosaico, blu del profondo ed oro di corona. Da
lontano prende forma e colore. La luce taglia l’alabastro in questa città
morta. Verso l’imbrunire, se ancora un umile raggio ferisce le pietre e i
marmi, guardate il volto dell’imperatore che protegge le chiese di Bisanzio.
Egli è morto altrove lasciando uno spavento a scolta dei bastioni.
Due
di seicentotredici.
Seicentotredici
spine conficcate alle tempie. Su quel legno i re hanno crocifisso i figli della
nostra stirpe, disperdendoli per oceani profondi, per campagne inospitali, fra
uomini dalla pelle di neve. In fortezze di ferro circondate di spine, spina per
spina.
Tre
di seicentotredici.
Così
ogni giorno di ricchezza e virtù, di aurora in aurora, il cielo vermiglio che
porta discernimento e cola come pece bruna sulle braccia aperte, sui piedi enfi
dei vecchi, sulla stanchezza di ognuno. Sul dolore raggrumato che ci accompagna
fino alle luce bianca che ancora inalba in lontananza.
Questo
resti dei vivi, io vi comando. -
Così
parlò e mesti uscimmo per le vie deserte, mai avevamo ascoltato parole come
queste.
- A
noi forse, non fu dato il comprendere. - mormorò lo studente al compagno.
La
sapienza a volte è negata ai reprobi, ai giovani, ai superbi. -
- È
forse uno zaddik ? confonde il pensiero e dona quiete. – chiese Sarah.
- Chi
può dire del Rabbi forestiero, che sappiamo mai di lui ? Però le parole mulinano
intorno come polvere nei cortili. La voce è profonda, e gli occhi trafiggono,
se avviene di incontrarli mentre preghi. -
Rav
Amran veniva da lontano, dalle terre fredde d’oriente, era giovane, il volto
scuro, portava i cernecchi, come qui non si usa. Si diceva che fosse uno
studioso di kabalà e conoscesse libri che altri mai avevan saputo intendere.
Forse per questo le sue parole erano oscure, incomprensibili per noi, la nostra
piccola comunità, da poco tempo orfana del vecchio rabbino Meir, sepolto dietro
il muro con gli altri morti.
Gli
uomini mormoravano, temevano che il nuovo Rabbi fosse troppo rigido e severo
sugli obblighi e che sul cibo reintroducesse quelle norme che per
semplificazione o dimenticanza non sempre venivano osservate.
Pochi
sapevano leggere l’ebraico e si limitavano a biascicare qualche memoria sonora
appresa in gioventù. Non volesse Hashem che il nuovo arrivato chiedesse a tutti
di ricominciare a studiare.
Ma
ci rendemmo conto in breve tempo che Rav Amran era un uomo molto riservato,
quasi scontroso, non chiedeva mai aiuto alla comunità, nemmeno il denaro per la
bisogna di ogni giorno; lo vedevamo camminare solo, con la testa china, come
chi pensa e borbotta fra sé. Trascorreva le fredde giornate di quell’inverno
chiuso fra mura, i libri aperti sul tavolo, con disegni mai visti, fatti di
parole. Parole come linee, come profili.
La
notte vegliava ad una luce fioca, cantava melodie senza fine, senza suono che a
noi giungesse conosciuto.
Sapevamo
che sarebbe rimasto poco tempo, da Roma doveva arrivare Rav Castiglioni che si
sarebbe fermato con noi definitivamente. Era più rassicurante; in fondo un po’
inquietava Rav Amran, quel suo accento strano, quel suo eloquio fermo e grave;
quelle parole nuove. Sembrava un uomo triste, sofferente, come chi, presago di
sventure, sa di dover tacere, e dunque non si lascia comprendere, come fa un
profeta, assolvendo così l’anima sua, ma non la nostra dalle antiche paure.
La
partenza di Rav Amran era prevista a metà ottobre, non sapevamo per quale
destinazione, qualcuno mormorava che avrebbe consacrato la vita allo studio e
alla scrittura di nuovi commenti al Tanak, dacché questa era sua natura ed
inclinazione; così parve giusto. Qualcuno avrebbe giurato, peccando, che Amran
sarebbe salito in Eretz Israel, a Yrushalaim, o forse nel deserto, dove il
pensiero si distilla e lo spirito del sacro si manifesta nelle fredde costellazioni
della notte.
Così
questo cogitare infine dispiacque, perché si faceva forte il timore di perdere
l’opportunità di avere un sant’uomo fra noi, che avrebbe per certo dato
prestigio alla nostra piccola perduta comunità. Ma altri pensieri coprivano,
come coltri, questi timori.
Venne
così il giorno degli addii. Rav Amran dopo l’Arvit al Beth haKneset parlò un’ultima volta:
- I
cani leccheranno il sangue e l’acqua si tingerà di rosso dove le donne si mondano il corpo. Le ulcere si apriranno a liberare gli umori della nostra
misera vita. Le tenebre saranno ornamento al vagare e una niddah, dal nulla,
feconderà di infermità la terra sulla quale ancora camminiamo. Vivremo
nell’ombra, con i ferri della schiavitù ai polsi, il corvo beccherà i chicchi
rossi delle melagrane e sangue sarà sui secoli che verranno. Gli animali che
strisciano sulla terra edificheranno torri di veleno e la notte sarà padrona
dell’universo.
Udiremo il grido della terra un’ultima volta,
poi il silenzio sarà signore del tempo. -
Amran
il profeta lasciò la città nella notte. Nevicava ed una luna rossa, come mai
avevamo veduto, feriva il firmamento.
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