mercoledì 27 febbraio 2013

SHABATH 20 ADAR 5773 / 1-2 MARZO 2013


Famiglia ebrea (artista non identificato)

ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore 17.34
Havdalah          18.33

PARASHAH KI TISSA: Shemoth 30,11 - 34,35
HAFTARAH KI TISSA: Melakhim I, 18, 1-19   

Shalom
Prima di affrontare l'approfondimento settimanale vi propongo la lettura del seguente Midrash; come già sapete un midrash, dalla radice darash ricercare, è un racconto omiletico che approfondisce l'indagine esegetica dei testi Sacri. Il midrash haggadico ha un contenuto narrativo mentre quello halachico ha un contenuto giuridico. A volte hanno una funzione didascalica, ma spesso tendono ad attualizzare e comprendere problemi dell'epoca in cui furono scritti; scevri di schematismi e voli filosofici affrontano in maniera concreta, reale, i temi che vengono interpretati. Eccovi il testo che fa riferimento alla nostra parashà:
"Il popolo vide che Mosè tardava" (Es. 32, 1).
Era giunta l'ora sesta (gioco linguistico fra boshes tardava e
ba-shesh era venuta l'ora sesta) e Mosè non era ancora disceso, mentre quando era salito sul monte aveva annunciato ai figli di Israele: di qui a quaranta giorni, al principio dell'ora sesta io tornerò.
Allo scadere dei quaranta giorni, si formò una moltitudine di quarantamila persone, costituita in gran parte da quegli elementi sospetti che si erano aggregati agli Ebrei al momento dell'uscita dall'Egitto; li accompagnavano anche due taumaturghi egiziani, Junos e Jumbros, quegli stessi che dinanzi a Faraone facevano atti di magia, come è scritto: "ed anche i taumaturghi dell'Egitto fecero così, con le loro arti magiche" (Es 7, 11). Tutta questa moltitudine si presentò ad Aharon dicendo: ormai Mosè non torna più.
- No, sta scendendo dal monte - dissero Aharon e Chur.
Ma quelli non vi fecero caso.
Secondo altri fu il Satan che venne a confondere il mondo e disse agli Ebrei:
- Dov'è il vostro maestro Mosè?
- È salito sul Sinai - gli risposero.
- Ma se è giunta l'ora sesta! -
Ma anche a lui non fecero caso.
- Ma se è morto! - disse allora il Satan.
Non gli badarono ugualmente.
Allora il Satan mostrò loro, come sospesa fra cielo e terra, la bara di Mosè, sicché quelli, mostrandola a dito, dicevano:
"Sì, questo è l'uomo Mosè" (Es 32, 1). In quel momento Chur si levò e rimproverò aspramente il popolo dicendo: "O gente dalla dura cervice, non ricordate più quanti miracoli il Signore ha fatto per voi?"
Tutti gli si sollevarono contro e lo uccisero. Poi adunatisi alla presenza di Aharon gli dissero: "se tu ci costruisci un idolo bene, altrimenti faremo a te quello che abbiamo fatto a Chur".
Vedendo ciò, Aharon si spaventò e prese a intrattenerli con discorsi. Disse loro: "staccate i monili d'oro che sono agli orecchi delle vostre donne" (Es 32, 2). Era come chiedere una cosa impossibile, alla quale le donne si sarebbero opposte. Infatti, recatisi gli uomini dalle proprie mogli, queste si rifiutarono e dissero: "D-o ne guardi dal rinnegare il Santo Benedetto Egli sia, che ha fatto per noi tanti miracoli e prodigi! D-o ci tenga lontano dal fabbricare un idolo!" E siccome esse non vollero assecondare la richiesta, "allora tutti gli uomini del popolo staccarono i monili che avevano ai propri orecchi" (Es 32,3).
Disse Rabbi Jrmeja: quando Aharon vide che portavano i monili levò gli occhi al cielo e disse "a Te alzo i miei occhi, a Te che dimori nei cieli! (Sal 123,1). Tu che conosci tutti i pensieri, sai che io faccio l'idolo mio malgrado". Gettò quindi l'oro nel fuoco, vennero i taumaturghi egiziani e con le loro arti magiche fabbricarono l'idolo.
Secondo altri un certo Micha che, a suo tempo, Mosè aveva salvato traendolo fuori da un edificio dove era stato murato, prese una tavola sulla quale era scritto "sali o vitello", la gettò nella fornace e ne uscì un vitello che muggiva e saltellava. A quella vista il popolo cominciò a dire "questo è il tuo Dio o Israele" (Es 32,4). da Riccardo Pacifici: Midrashim fatti e personaggi biblici.
Questo midrash è parzialmente assolutorio nei confronti delle responsabilità di chi volle la costruzione della scultura idolatra.
Alcuni commentatori sostengono che in realtà il popolo non voleva sostituire con l'idolo il D-o di Israele ma semplicemente la guida Mosè che non ritornava.
Questa interpretazione non è condivisa da moltissimi chiosatori che, anzi, leggono le scuse di Aharon come una stonata non assunzione della propria responsabilità. Dobbiamo inoltre tener conto che la figura del vitello, del toro, aveva dei vincoli molto radicati nella cultura religiosa di tutti i non Ebrei, quella moltitudine mescolata che si era aggregata al popolo di Israele che era uscito dall'Egitto.
Il culto totemico del toro, diffuso già nel mondo preistorico, era conosciuto presso i Babilonesi che lo adoravano col nome di Ninib o Moloch, presso i Fenici che lo conoscevano col nome di Hadad, ma era fortemente presente nei culti idolatri egiziani come incarazione di Osiride, o come il sacro toro Apis, incarnazione di Ptah. Apis rappresentava la potenza del faraone, uno dei cinque nomi del quale era "toro possente". Tra l'altro veniva adorato un solo toro; alla sua morte veniva imbalsamato e si procedeva alla ricerca di un'altra incarnazione del Dio. Nella morte Apis diveniva un Osiride, Osiris Apis ovvero quel Serapis che veniva adorato anche da Greci e da Romani.
Secondo alcuni studiosi una derivazione cananeo-palestinese di questa divinità è rintracciabile anche nelle civiltà nuragiche sarde.
Dunque una figura divina talmente diffusa nelle antiche civiltà mediorientali e mediterranee che non può stupire che potesse essere evocata da un patrimonio comune radicato in quelle persone che pur non essendo ebrei avevano seguito Israele fuori dall'Egitto. Si tenga conto anche che un dio egiziano, il maligno Set, il cui volto era zoomorfo, seppure di un animale difficilmente classificabile, era considerato il dio del deserto e dei popoli stranieri, un dio temibile che nel periodo del Nuovo Regno diventò, per gli egiziani, il dio dell'esercito.
Alla luce di quanto detto dunque l'ipotesi di un sostituto di Mosè che potesse guidare Israele si fa più labile, mentre appare più marcata la caduta in un culto idolatrico. Per questo sia Lattes che altri commentatori non sono particolarmente indulgenti con Aharon.
Quello che si presentò a Mosè al ritorno è la caduta sulla nuda terra dopo la salita al monte.
Hararat, Moriah, Horeb, Sinai, la montagna è sempre presente nel cammino di Israele. Dalla pietra dell'Horeb percossa da Mosè scaturì l'acqua lustrale che dissetò Israele, sul monte Horeb Mosè tese le braccia alzate verso D-o fino alla sconfitta di Amalek, sul Sinai Mosè ha ricevuto le Tavole, sul monte Hor Mosè vedrà ai suoi piedi la Terra che stilla latte e miele. Simbolo della elevazione spirituale, della verticalizzazione del pensiero verso D-o, della sacralità, la montagna è anche metafora della salita a D-o, dove D-o si manifesta, dove cielo e terra s'incontrano. Ponte e scala della pochezza e dell'ansietà della trascendenza umana che tenta di accedere alla dimensione superna. Dove non ci sono montagne gli uomini le costruiscono, dagli ziqqurat babilonesi alle Piramidi Egizie e Maya, dalle pagode alle grandi cattedrali.
Il nostro blog recita: Il nostro ritorno da lontano ci fa ascendere sul Suo monte santo.
E questo deve essere un monito perché ad ogni ritorno dobbiamo tenacemente ripudiare le forme idolatriche di cui la contemporaneità si nutre: suadenti più dello stesso oro, subdole più del Satan, tessono le fila dell'inganno. Per questo
D-o nella sua onniscenza, come all'Adam ci chiede "Dove sei?"
Shabbat shalom
Israel Eliahu

lunedì 25 febbraio 2013

SALMU 69

 
1A lu maistru di lu coru, supra a shoshannim, di David. 2 Sarvami, o Signuri, l’acqua mi junci a lu cannarozzu. 3 Affunnu ‘nto fangu e nun haiu appoggiu, haiu carutu na acqui funnuti e l’unna mi cummogghia. 4 Sugnu stancu di ittari vuci, a me’ vucca è sicca, l’occhi cunsunti na lu aspittari lu miu D-u. 5 Chiù assai di mei capiddi sunu chiddi ca mi odianu senza rragiuni; sunu putenti chiddi ca mi stannu a sbrigugnari: tuttu chiddu ca nun haiu arrubbatu, iù lu avissi a renniri? 6 D-u, tu mi canusci, sai quantu sugnu stolitu e li mei piccati non ti sunu ammucciati. 7 Cu spira ni tia, pi curpa mia nun sia cunfunnutu, Signuri, D-u di li eserciti, pi mia nun s’hâ affruntari cu ti cerca, D-u di Israeli. 8 Pi tia iù supportu l’insultu e la virgogna mi cummogghia a facci; 9 sugnu nu stranieru pi li mei frati, nu furasteri pi li figghi di me’ matri. 10 Puiché mi arrusica lu zelu pi la to’ casa, supra di mia s’arrizzolunu li oltraggi di cu t’affenni. 11 M’haiu estenuatu ‘nto dijunu è pi mia è stata na infamia. 12 Pi vistitu m’aiu misu nu saccu e haiu addivintatu nu pupazzu; 13 sparravunu di mia chiddi ca erunu assitati davanti â porta, li ‘mbriachi mi sfuttevunu. 14 Ma iù isu a tia la me’ priera, Signuri, na lu tempu di la to’ misiricordia; pi la grannizza di lu to’ amuri, rispunnimi, pi la fidizia ‘nta la to’ sarvizza, o Signuri 15 Sarvami da lu fangu, fa’ ca iù nun possa affunnari, veni a libberarimi da li mei nimici e da li acqui funnuti. 16 Nun mi fari cummigghiari da li unni e vurricari da la vucca di lu abbissu. 17 Rispunnimi, Signuri, la to’ grazia è miraculusa, cu la to’ tinirizza vota la to’ facci a mia. 18 Nun ti ammucciari a lu to’ servu, sugnu in periculu, prestu rispunnimi. 19 Stammi accantu, nun mi lassari, dammi rrizzettu, sarvami da li nimici. 20 Tu canusci li mei piccati; davanti a tia sunu tutti li mei nimici. 21 La iastima ha ruttu lu me’ cori e nun haiu chiù abbentu. Haiu aspitattu la cumpassioni ma invanu, cunsulaturi nunn’haiu truvatu. 22 M’hannu civatu cu lu vilenu e quannu avevu siti m’hannu datu a biviri l’acitu. 23 La loru tavula sia pi iddi nu lazzu, na isca li loru banchetti. 24 Fa’ appannari li loru occhi, falli addivintari orbi, rrumpici pi sempri li cianchi. 25 Sdivaca supra iddi lu to’ sdignu, li pozza arrustiri lu to’ focu. 26 Sia disulata la loru casa, e la tenna vacanti senza pirsuni; 27 pirchì vannu appressu a li vastasi, iunciunu duluri a chi tu hai firutu. 28 Ancucchia supra a iddi curpa supra curpa, pi nun aviri la to’ ggiustizzia. 29 Siano cancillati da lu libbru dei viventi e nun sianu scrivuti tra li giusti genti. 30 Iù sugnu affrittu e sburdutu, la to’ sarvizza, D-u, mi metti ô riparu. 31 Iù canterò la to’ lodi, ti esalterò cu azioni di grazie, 32 ca a lu Signuri piaciunu chiù assai di tori e di li ienchi cu corna e ugna. 33 Accussì l’omini umili si ponnu arricriari, e lu cori si rinfoca pi chiddi ca cercunu D-u, 34 pirchì lu Signuri ascuta li poviri e nun disprezza i soi ca sunu priggiuneri. 35 Iddu sia acclamatu da li celi e da la terra, da lu mari e da tuttu chiddu ca si movi. 36 Pirchì Sion verrà sarvata da D-u e a città di Giuda farà sgravari n’autra vota, ci abbitirannu e avrannu lu pussessu. 37 A stirpi di li soi servi ni sarà eredi, e cu ama lu so’ nomi ci farà u nidu.

Traduzione di Khaim Jehudà - Giovanni Ferdinando Giudice (di proprietà dell’autore)

mercoledì 20 febbraio 2013

SHABATH 13 ADAR 5773 / 22-23 FEBBRAIO 2013

 
Dennis Bacchus: Havdalah
 
ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  17.27
Havdalah              18.26
 
PARASHAH TETZAVVE: Shemoth 27,20 - 30,10
HAFTARAH TETZAVVE: Yechezqiel 43,10-27

Shalom a tutti.
Abbiamo visto, nell'approfondimento della parashah Therumah, come nel pensiero ebraico vi sia la santificazione del tempo nella creazione e nella parola divina, e come il Signore conceda all'uomo di santificare lo spazio nel Mishkan.
"Una delle idee centrali dell'ebraismo - scrive la Shenkar - è il concetto di un sacro che non può essere fissato; di un popolo che mira a una terra ma che rimane sempre in viaggio, in un altrove; di una Gerusalemme non già posseduta ma sempre da acquisire". E Bruno Zevi, in un saggio breve ma intenso, Ebraismo e concezione spazio temporale dell'arte scrive:
"Gli Ebrei sono Ebrei in quanto respingono la staticità delle cose e delle idee e credono nel mutamento e nel riscatto". Coinvolto in una responsabilità creativa, non nella mera contemplazione del creato, il costume di vita degli Ebrei è ritmato sul tempo. Le loro solennità sono segnate, in larga misura, dalle stagioni e dai ricordi. Nello Shabbat i religiosi individuano la santificazione del tempo, di D-o, dell'esistenza.
"I Sabati - scriveva Herschel - sono le nostre grandi cattedrali: il rituale ebraico può essere qualificato come l'arte delle forme significative nel tempo, come architettura del tempo".
Lo vedremo anche a Pesach, quando l'uomo si libera da ogni schiavitù e nella memoria ricomincia questo percorso di affrancamento da ogni Egitto, dalla materia, iniziando ancora una volta il percorso che libererà la sua anima. Non a caso alcuni testi cabalistici lo paragonano alla nascita, quando il bambino lascia l'ambiente amniotico.
Dunque tutte queste disposizioni che il Signore dà, devono essere lette in questa dinamica dello spazio tempo. Ogni oggetto, ogni vestimento si caricherà, nei secoli, nei millenni a seguire, di afflati mistici, di stratificazioni simboliche complesse e a volte misteriose, moltiplicando lo spessore semantico di ogni dettaglio.
Troviamo nel Trattato dei Palazzi, Zohar, Bereshit 38a:
"Rabbi Shimon dice: Abbiamo appreso che, per creare il mondo, il Santo incise i segni del segreto della fiducia nelle trasparenze eminentemente segrete".
Ma Heschel scrive "l'insegnamento dell'ebraismo consiste nella teologia dell'azione comune. La Torah sottolinea che l'interesse di D-o è per il vivere di ogni giorno, per le consuetudini della vita. La sfida non sta nell'organizzare grandi sistemi dimostrativi, ma nel modo in cui gestiamo il luogo comune". Questo assunto fa dire a Zevi: "Per questo il nostro santuario può essere una tenda sotto la volta celeste, un'arca mobile che segue il nostro itinerario. È un tempio che si chiama scuola perché vi si insegna la storia, può essere la scuola peripatetica del nostro errare, in quanto la storia è nel Libro che è in noi".
Forse per questo nella Torah a volte il Tabernacolo viene chiamato Mishkan a volte Ohel Moʽed. Ohel è la tenda, Moʽed è il tempo delle feste, il tempo dell'uomo. Cosicché una traduzione possibile sarebbe Tenda del Tempo.
Cogliamo un aspetto abbastanza criptico del choshen, il pettorale del Kohen hagadol: Lattes dice che è difficile leggere unanimamente un qualsiasi simbolismo nelle dodici pietre incastonate e corrispondenti ai figli di Yaʽakov e dunque alle dodici tribù.
Vediamo ad esempio come lo Zohar commenta: "Queste dodici pietre preziose di Basso sono il riflesso sulla terra delle dodici Tribù cosmiche del mondo della Kedushah. Su ciascuna è inciso il nome della tribù collegata. Vedete subito come in ambiente mistico ogni valore simbolico possa trovare un'accezione.
Per dovere di cronaca vi riporto di seguito le rispondenze delle pietre con le tribù.

Prima fila:       rubino-Reuven, topazio-Simeone, smeraldo-Levi;
seconda fila:  zaffiro-Giuda, opale-Issacar, diamante-Zabulon;
terza fila:        giacinto-Dan, agata -Gad, ametista-Neftali
quarta fila:      berillo-Asher, onice-Giuseppe, diaspro-Beniamino
                    
In effetti sembra evidente come questo oggetto non avesse una concreta funzionalità liturgica ma piuttosto rappresentasse altro da , dunque avesse un valore trascendente.
Ma in qualche situazione, per evitare autoriflessioni ermeneutico-filosofiche, conviene appellarsi al Wittgenstein che scrive: "In filosofia si corre sempre il pericolo di produrre un mito del simbolismo o un mito del processo spirituale. Invece di limitarci a dire, semplicemente, quello che tutti sanno e devono ammettere" o come scrive ancora "Voglia D-o provvedere il filosofo di uno sguardo acuto per ciò che sta sotto gli occhi di tutti". Dunque senza accedere forzatamente al gesunder Menschenverstand, al senso comune evocato da Rosenzweig in "Dell'intelletto sano e malato" proviamo, a volte, ad accordarci a quell'equivalenza fra pensiero ebraico e intelletto sano che intravede Glatzer, o perlomeno "a quell'attenzione per il concreto, l'individuale, l'irripetibile di ogni situazione singola che percorre tutta la cultura ebraica e ne condiziona, sottolinea Levinas, le forme culturali più caratteristiche, prima fra tutte il Talmud" (Gianfranco Bonola: Il disagio della filosofia).
In questo Midrash la semplice pragmaticità ebraica:
"E farai delle assi per il tabernacolo" (Es 26,15).
E da dove provenivano le assi? Il nostro Patriarca Giacobbe le aveva preparate. Quando egli giunse in Egitto, disse ai suoi figli - figli miei, voi sarete liberati da questa terra e il Santo Benedetto Egli sia, dopo la vostra liberazione vi ordinerà di costruire un tabernacolo, perciò preparatevi fin d'ora e piantate dei cedri, di modo che essi siano pronti quando Egli vi darà l'ordine di costruire il tabernacolo - Senz'altro fecero così e cominciarono a piantare; è detto infatti "le assi" quelle che loro padre aveva preparate (Tanchuma-Terumah).
Come dire che mentre noi ci interroghiamo sui significati reconditi e sulle simbologie i nostri padri si sono armati di seghe e pialle e si sono detti "Bene!! Andiamo a prendere la legna".

Shabbat shalom
Israel Eliahu

PURIM 5773 - DIGIUNO DI ESTER: anticipato all'11 Adar/giovedì 21 Febbraio (dall'alba al tramonto)

 
Shalom a tutti.
Sappiamo che gli Ebrei praticavano il digiuno il giorno precedente a battaglie, ritenendo che questo atto li conciliasse ancor più con D-o e per questo motivo digiunarono anche il 13 di Adar, quando si riunirono per difendere la propria vita. Per onorare questa memoria il 13 di Adar si digiuna. Ma questo digiuno, come ogni altro, ha anche valenza di purificazione, di preparazione prima di accostarsi al sacro, come è nella memoria collettiva degli Ebrei. I nostri maestri scrivono che il digiuno "deve risvegliare i nostri cuori e indurci a percorrere le vie della penitenza, affinché questo ci serva a serbare ricordo delle nostre azioni negative e di quelle dei nostri antenati.... Ripensando a ciò saremo in grado di migliorare la nostra condotta come è detto: Confesseranno i loro peccati e i peccati dei loro padri" (Levitico 26,40).Io penso che questo svuotamento debba essere inteso come atto essenzialmente spirituale. Conoscete la storiella di quel tale che si voleva accostare ai gradi superni della conoscenza e si recò da un maestro, spiegandogli con dovizia informativa i gradi di preparazione già raggiunti? Il maestro gli chiese se gradiva una tazza di tè; così cominciò a versare la bevanda e quando il bicchiere fu colmo continuò a versare il liquido che scese sul tavolo e poi in terra. A questo punto l'aspirante allievo disse - Maestro, mi scusi, ma sta sciupando il tè inutilmente. - Il maestro rispose - Vedi, questo bicchiere è come te, sei venuto qui già pieno, senza umiltà e senza reale desiderio di imparare veramente, cosa potrei mettere in un uomo colmo di supponenza? Svuotati, sii umile, solo allora potrai accostarti alla verità superna. -
Fermo restando che il digiuno ci dà la misura che nulla è scontato e per tutto quello che abbiamo dobbiamo ringraziare il Signore ogni giorno. Questo facciamo recitando le berachot ogni mattina e anche ogni volta che ci accostiamo al cibo.

Tornando al digiuno di Ester dunque, dobbiamo sapere che non è un digiuno vincolante. Sono ammesse cioè delle facilitazioni per donne gravide, e per le persone malate o indisposte. Per altro, tutti sono tenuti ad osservarlo, anche se in viaggio o se il digiuno risultasse gravoso.

Vi ricordo inoltre che di Purim non si deve lavorare, tuttavia sono consentite transazioni commerciali, scrivere lettere di convenevoli e, a maggior ragione, è consentito ogni tipo di lavoro che serve a realizzare una mitzvah.

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Per quanto riguarda la lettura della meghillat di Ester, ci sono alcune norme importanti che dobbiamo ricordare.

È bene seguire la lettura in Sinagoga, anche perché Israele deve comprendere sempre il valore collettivo e comunitario dei propri atti.

Si devono usare gli abiti belli, quelli dello Shabbath e, come di Shabbath, tornando a casa si devono trovare le luci già accese, la tavola apparecchiata e il letto rimesso in ordine.

La sera prima della lettura si dovrà fare un'offerta, una donazione, terumah (qui non si intende la tzedaqah, giustizia elemosina; questo si fa in memoria del contributo che nel mese di Adar si raccoglieva per le offerte al Tempio per i sacrifici) dell'equivalente di tre mezzi sicli, che poi verrà distribuita ai poveri.

La lettura si tiene dopo che sono comparse le stelle. Un poco prima della lettura è consentito assaggiare qualcosa come caffè o una bevanda per riaversi dalla debolezza dovuta al digiuno.

Tutti hanno l'obbligo di ascoltare la lettura della meghillah. Chi legge ha l'intenzione di fare uscire d'obbligo tutto l'uditorio. Chi ascolta deve avere il proposito di uscire d'obbligo e quindi di ascoltare ogni parola che viene pronunciata. Chi legge deve inoltre sospendere la lettura ogni volta che avrà nominato il nome di Amàn per consentire ai presenti di fare rumore e maledire il nome del perfido personaggio della nostra narrazione.

Chi segue la lettura non deve leggere a bassa voce né anticipare né suggerire a memoria chi legge. Tuttavia ci sono 4 versetti, i pesukè gheullà, versetti di redenzione, che vanno recitati ad alta voce dai presenti e poi saranno ripetuti dall'officiante.

A Purim si devono offrire mishlòach manòt cioè almeno due porzioni di cibo così come è scritto in Ester: Mishloach Manòt ish leReʽèhu, ciascuno al proprio compagno. Si intendono cibi che non necessitano di preparazione, già cotti, ma anche dolci, frutta, vino.

Tutti, anche i più poveri, sono tenuti a fare almeno due Matanòt laevionìm, offerte ai poveri.

Inoltre è un precetto importante quello di organizzare un pranzo festivo da trascorrere in allegria, accendere candele: deve essere una giornata gioiosa, in particolare per i bambini.  Poiché il vino ha un'importanza rilevante nella storia di Ester, i nostri Saggi ci hanno imposto la regola di raggiungere una certa euforia grazie al vino, insomma di bere in misura maggiore del solito così da cadere addormentati e, nel sonno, "non riuscire più a distinguere tra le espressioni arùr Aman e baruch Mordechai", maledetto sia Aman, benedetto sia Mordechai (Talmud, Meghillà 7b). La normativa completa per il Purim potete trovarla nel Kitzur Shulchan Arùch.

Vi segnalo inoltre, per prepararci al Purim, queste importanti letture ai seguenti links:



inoltre nel sito torah.it, che il Signore li benedica per il lavoro che fanno, troverete molto altro materiale per approfondire il valore di questa festa.


Shalom e Hag sameach

Israel Eliahu

domenica 17 febbraio 2013

SALMU 80

 
 
1 A lu maistru di lu coru, supra a «Shoshanim ʽeduth», di Asaf, salmu. 2 Tu, pasturi d'Israeli, ascuta; Tu ca cunnuci Giuseppi comu a na mannira di pecuri, 3 assittatu supra cherubini brilli. Davanti a Efraim, Beniaminu e Manasse arruspigghia la to' putenza e veni a darini aiutu. 4 Fanni susiri, Signuri, nostru D-u, fa splendiri a to facci e nuiautri saremu sarvati. 5 Signuri, D-u di li eserciti, finu a quannu fremerai di sdignu cuntra li prieri di la to' genti? 6 Tu ci civi cu pani lagrimusi, ni fai biviri lagrimi in abbunnanza. 7 N'ha fattu mutivu di sdignu pi li vicini, e li nostri nimici arrirunu di nuiautri. 8 Fanni susiri, D-u di li eserciti, fa bbrillari la to' facci e nuiautri saremu sarvati. 9 Hai sdirradicatu na preula di racina dall'Egittu, pi trapiantarla hai mannatu a genti, 10 ci hai priparatu lu tirrinu, hai affunnatu li soi rrarichi, hai inchiutu a terra. 11 La so' ummra cummigghiava li muntagni e i soi rami li chiù iauti citri. 12 Hai stinnutu li soi sarmenti finu a lu mari e agghicavunu 'nta lu ciumi li soi ggermogghi. 13 Pirchì hai abbattutu li soi mura a giru e ogni viandanti po' vinnignari? 14 La po' distruiri lu cinghiali di lu voscu e si ni pasci l'animali sarvaggiu. 15 D-u di li eserciti, votiti, talia di lu celu e viri e visita sta vigna, 16 pruteggi lu cippu ca la to' manu ritta ha chiantatu, lu gigghiu ca t'hai cultivatu, 17 chiddi ca la abbracciarunu cû focu e la tagghiarunu murirannu a li minacci di lu to' visu. 18 Sia la to' manu supra l'omu di la to' destra, supra a lu figghiu di l'omu ca pi tia l'hai fattu addivintari forti. 19  Di tia chiù nun ci alluntaneremu, ci farai viviri e invocheremu lu to' nomi. 20 Fanni susiri, Signuri, D-u di li eserciti, fa splendiri a to' facci e nuiautri saremu sarvati.

Traduzione di Khaim Jehudà - Giovanni Ferdinando Giudice (di proprietà dell’autore)

martedì 12 febbraio 2013

L'IMMIGRANTE POVERO di Israel Zangwill

 
Boris Dubrov: Shtetl, 2005

Chissà! Forse fra le due razze erano i poveri vecchi ambulanti ebrei quelli che soffrivano di più e raccoglievano generalmente i più meschini guadagni. Poiché il miserabile spaventapasseri col cappello a tricorno, come lo raffigura la caricatura cristiana, che si trascina gridando con voce nasale "roba vecchia!", ha in sé una vita interiore ardente, tale da rivaleggiare per intensità, per valore, per humor persino, con quella dei più sottili motteggiatori di piazza.
Per Moshes «viaggiare» significava errare per villaggi e cittadine sconosciuti, devoti a una divinità forestiera, sempre pronti a vendicarne la crocefissione, o attraverso paesi di cui conosceva la lingua press'a poco quanto la donzella saracena che la leggenda fa sposare al padre di Tommaso Becket. Questo voleva dire per lui recitare le sue preghiere nei vagoni ferroviari pieni di gente, avvincendosi i filatteri ripiegati in sette intorno al braccio sinistro, cingendosi la fronte di una grossa cinghia di cuoio, a tutta sorpresa dei compagni di viaggio qualche volta poco comprensivi. Questo voleva dire nutrirsi di solo pane e di tè scuro bevuto dalla sua tazza, poiché carne, pesce e tutte le buone cose della vita cucinate dai goyim gli erano severamente precluse dalla legge tradizionale, anche se fosse stato meno infelice. Questo voleva dire inalberare un drappo rosso in mezzo a una mandra di tori. Questo voleva dire passare mesi e mesi lontano dalla moglie e dai figli, in una solitudine solo rallegrata qualche volta da uno shabbat trascorso in una città dove esisteva una Sinagoga. Questo voleva dire alberghi infimi e losche locande, dove era spesso mandato a letto sanguinante e indolenzito da chiassosi burloni o, magari, spogliato sfrontatamente di ogni sua mercanzia, obbligato ad abbassare i prezzi già modesti, malmenato perché sapevano che non avrebbe osato ribellarsi. Questo voleva dire sopportare derisioni e canzonature in una lingua che capiva solo quando occorreva e rendersi conto che era crudele, benché alcuni lazzi gli fossero divenuti familiari a forza di sentirli ripetere. Un giorno, interrogato su dove fosse Moshè quando si era spenta la luce rispose in yddisch che la luce non poteva spegnersi poiché "È detto nel versetto che intorno al capo di Moshè, nostro grande legislatore, era perpetua l'aureola luminosa". Un vecchio tedesco che si trovava per caso a fumare nell'osteria quando il mercante ambulante diede questa commovente risposta, rise di cuore e battendo amichevolmente sulla spalla dell'ebreo, tradusse la sua battuta agli altri presenti. Questa volta trionfò lo spirito e i bevitori, un po' vergognosi, fecero a gara ad offrire birra amara all'ebreo astemio. Ma Moshè Ansell era più abituato alla coppa dell'afflizione che a quella del benvenuto, senza neppure accorgersi di essere eroico: sopportava la sua parte di sofferenza nella lunga agonia della sua razza condannata ad essere zimbello degli infedeli. Morire per la propria religione è indubbiamente più facile che vivere per lei; ciò nonostante Moshes non si lamentava mai, né perdeva la sua fede. Esser bersaglio di sputi era condizione stessa di vita per l'ebreo moderno privato di Israele e del suo Tempio. Il mendico afflitto e stanco, sbattuto, vilipeso, è ancor più caro al Signore Idd-o che lo ha scelto fra tutti i popoli. Me se gli insulti torturavano l'anima di Moshes in questo mondo, era certo che nell'altro sarebbe assiso su un trono d'oro a cantare salmi per l'eternità.

giovedì 7 febbraio 2013

SHABATH 29 SHVAT 5773 / 8-9 FEBBRAIO 2013

 
Édouard Moyse: Sinagoga durante la lettura della Torah
 
ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  17.13
Havdalah     ore  18.13
 
PARASHAH MISHPATIM: Shemoth 21 - 24
HAFTARAH MISHPATIM: Yrmeyah 34,8-22 (più 33,25-26)
 
Shalom a tutti.

Scrive Rabbi Moshè Chayim Luzzatto: "La vera presenza del bene e del male consiste nel fatto che il Signore, Benedetto Egli sia, ha collocato nel mondo la kedushà e la tum’a, la santità e la impurità. La kedushà è la vicinanza a D-o benedetto e la tum’a la lontananza. (…) per cacciare l’abominio della tum’a, il Signore ha designato per l’uomo delle azioni attraverso le quali si attira la kedushà e gli ha ordinato di compierle sempre: esse sono le 613 mitzvoth, i precetti". Cioè le leggi del Signore.
Perché il Signore si è limitato a dare soltanto dieci Devarim? La risposta è che le dieci parole contengono in sé tutte le altre leggi che l’uomo deve rispettare. Dunque implica non solo l’esistenza di una Torah scritta ma anche di quella orale, che non è un adeguamento della legge divina ma la esplicazione di quanto già contenuto nella Torah. Alcuni precetti sono misteriosi, ermetici, come quelli dei tefillin o della mezuzah, che non hanno prescrizioni scritte e dunque andavano precisate dalla normativa rabbinica successiva, cercata e compresa proprio nella decodifica della Torah. In Devarim 17,11 troviamo: "Non devierete da ciò che vi diranno né a sinistra né a destra". Si pone dunque la questione sulla validità di leggi date 3000 anni fa e che ancora devono mantenere il loro senso assoluto, sia da un punto di vista dell’etica che da quello normativo. Se per Platone il concetto di legge contiene l’idea di una normativa che consente di piegare la società umana alla necessità di una giustizia sottraendola allo stato di natura, per Aristotele l’idea di legge naturale si articola sulla universalità della ragione; una legge non scritta di cui gli uomini "hanno una comune divinazione e il cui sentimento è naturale e comune anche se non esiste fra essi alcuna comunità né contratto" Dunque degli a-priori in senso Kantiano come forme pure che sussistono prima dell’esperienza. Per gli Ebrei la Torah è perfetta per costituzione divina Torah min hasamayim ed ha in sé la capacità di produrre mutazioni e di rendere sé stessa adeguata all’evoluzione sociale. La legge del Signore è vivente, i nostri Maestri, nella incessante rilettura del testo sacro, ne hanno di fatto estruso il senso di continuità "parole-cose divine viventi", Divre Elohim hamayim.
Scrive Jaqueline Genot: "La legge degli anziani che i Farisei cominciano a selezionare, a costituire, a riformare, fin dal primo secolo della nostra era è storicamente il primo luogo di risposta a questa sfida dell’articolazione vivente della Torah nel divenire della storia".
Solo in questa prospettiva comprendiamo perché l’uomo ha colto nella solitudine del deserto, nel vuoto, nel silenzio che lo separava dal mondo ma che lo avvicinava a D-o Benedetto, la bellezza universale della legge.
Proprio perché la Torah non è una guida che rende schiavi, ma una scelta di libertà. In fin dei conti la libertà individuale si misura proprio nella possibilità della disobbedienza, nella propria totale responsabilità.
La legge del Signore è perfetta scrive Nahmanide (Ramban) in una sua omelia. Torat Adonay Temimah. L’osservanza della legge offre la possibilità di raggiungere una meta, non è essa stessa la meta, È un cammino, come indica la parola stessa, halakah da haloch, camminare.“Per gli Ebrei la legge, scrive Fromm, richiede l’azione e non la fede, è creata per la totalità e non per il singolo, per il popolo e non per una classe. La legge della Torah è espressione di una democrazia sostanziale”.
Max Weber scrive:“La legge deve avere un contenuto tale da costituire un sistema normativo vincolante per tutti i membri del popolo e insieme la capacità di salvaguardare l'individualità religiosa del singolo, un sistema che affondi le sue radici nell’idea religiosa che il popolo deve assimilare. L’atteggiamento religioso-etico fondamentale non viene trasformato in sistema teologico, ma sfocia direttamente nella Halakah, nella legge. Sicché questa diventa la più forte espressione del sentimento religioso, che non si forma nell’ambito del pensiero, bensì in una pratica nazionale, sociale, razionalmente significativa”.
Potremmo anche aggiungere che la Torah fonda una legislazione che non pone in sé un profilo escatologico, ma è strumento operativo che consente all’intera comunità di raggiungere quel grado di perfezione cui deve tendere Israele.
Affrontare la Parashà Mishpatim senza aver chiari questi concetti significa affrontare un mondo che parrebbe non avere legami con la modernità, senza riconoscerne il valore assoluto; senza comprendere la potenza universale della legge divina.
In Mishpatim sono espressi articoli, paragrafi di diritto civile e penale che devono regolare i rapporti fra gli individui di una collettività; ad esempio lo status giuridico del lavoratore. Si parta intanto dal concetto di dignità del lavoro insito nella Torah scritta e orale. Non è un caso che proprio fra i più dotti Ebrei troviamo un lavoro manuale, molti di essi erano contadini come Rabbi Eliezer ben Hykran, Rabbi Jochanan ben Zakkai, Rabbi Eliezer ben Azrja etc.
Il lavoro di un operaio porta beneficio alla comunità quanto quello del sapiente dedito allo studio.
Mishpatim affronta e regola giuridicamente la questione della schiavitù; se è vero che l’istituzione era accettata nel mondo antico è vero anche che oggi ha connotazioni molto più negative di allora, quando il temine indicava anche un rapporto di dipendenza di lavoratori.
Per un commento esaustivo, oltre alla lettura della parashah vi rimando a Nuovo commento alla Torah di Dante Lattes, editore Carucci.
Io vi lascio con questi detti Talmudici:
"Chi defrauda l’operaio è come se gli togliesse la vita. Egli vive del suo salario e ad esso è rivolto il suo desiderio".

Ed ecco questo racconto: "Un collega disse a rabbi Huna:
- Tu sei un uomo pio e rigorosamente retto. Da una sola mancanza non puoi essere assolto: alla vendemmia non hai dato al tuo servitore la parte di uva che gli spetta per legge.
- Perché avrei dovuto dargli dell’uva quando non c’è dubbio che egli me ne rubò più di quanta io fossi tenuto a dargli? - Fu la replica di rabbi Huna
- E per il solo sospetto che il servitore ti derubi tu credi di poterti permettere di derubare il servitore?"
Trattato Baba Mezia in Erich Fromm: La legge degli Ebrei, Rusconi

Shabbat shalom
Israel Eliahu