Se ci si addentra con attenzione nei movimenti antisemiti dal Medioevo ai nostri giorni, usando un sistema che vorrei chiamare di geografia psicologica, si giunge assai facilmente a comprendere come alla radice di ogni ondata di persecuzioni, molto più in fondo dei pretesti e dei rappezzi storico-economico-razziali, ardesse l’indistinto rancore della non conoscenza. Le ragioni sono molte e diverse: il naturale riserbo del mondo ebraico, l’oscurità della lingua, il fenomeno della concentrazione di gruppi di ebrei in comunità o ghetti che, nascendo da imposizioni, venivano facilmente scambiati per espressioni di settarismo, la pericolosa e facilmente equivocabile reticenza se non addirittura ostilità del mondo ebraico al proselitismo in epoche in cui si opponeva un proselitismo cattolico trionfante; e infine, e a causa di tutto ciò, la diffusa persuasione dell’Ebreo come straniero e parassita in terra d’altri, tenace sopravvissuto alla gigantesca rivoluzione religiosa nata col cristianesimo. Da un simile sostrato psicologico radicatosi nei non Ebrei nutrito da un passivo conformismo nell’accettare l’idea delle persecuzioni nei territori della Diaspora come fatalità storiche, derivò quel tanto di antisemitismo popolare sufficiente, se non a giustificare nelle forme più acute, certo a tollerare uno stato di perenne violenza verso il popolo ebraico. Nel migliore dei casi, come in Italia dove l’antisemitismo si esprimeva in forme più blande che nelle zone dell’Europa orientale, l’Ebreo, anche se in via di assimilazione, veniva considerato un cittadino di seconda categoria o quanto meno un eterno apolide da avvicinare con diffidenza. Sono persuaso che in alcuni strati sociali e ancora in certi ambienti dell’economia e dell’industria tale diffidenza permane. E finché essa permane sussiste per l’Ebreo della Diaspora un indistinto quanto tenace pericolo. Sotto questo aspetto lo stato d’Israele rappresenta la più alta conquista morale del popolo ebraico dai tempi della dispersione ad oggi. Ho detto conquista morale e non pratica, sottintendendo nell’aspirazione alla riconquista dello stato d’Israele una necessità morale e religiosa più complessa di qualunque schematico assestamento materiale. Che il desiderio più che legittimo di sicurezza e sopravvivenza abbia richiamato in Israele una folla di Ebrei questo è fuori di dubbio; ma altrettanto fuori di dubbio è che lo stato di Israele non è soltanto lo stato di un certo numero di cittadini che in questo momento abitano in quel determinato territorio bensì lo stato ebraico o lo stato del popolo ebraico: la spiegazione di queste parole non è territoriale ma storica e va ricercata appunto nella fusione tra concetto di stato e tradizione religiosa … Nel caso di Israele, che rappresenta la concentrazione del popolo ebraico, è necessario riunire i due concetti di potere spirituale e temporale in uno solo scaturito direttamente dalla storia; cosicché in nessun Ebreo la coscienza nazionale e la tradizione religiosa possono scindersi in due valori a sé stanti essendo già fusi in un solo contenuto teocentrico. In altre parole non si può parlare di Ebreo laico e Ebreo religioso senza cadere in contraddizione. Poiché il concetto della nazione si rifà alla Torah, ovverossia alla tradizione religiosa … L’ebraismo non pretese mai di assurgere a religione universale proprio perché fu prima di tutto uno stato; uno stato chiuso entro precisi confini geografici assegnatigli da Dio. Questa spiegazione permette di comprendere le ragioni della profonda e rapidissima fusione del popolo ebraico con la terra che fu sua.
Tratto da Goffredo
Parise L’Ultimo Sabato di Israele. In
L’illustrazione Italiana, Aprile 1959.
Nessun commento:
Posta un commento