ORARI DI SIRACUSA
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PARASHAH TETZAVVÈ: Shemoth 27,20 - 30,10
HAFTARAH: Yechezqiel 43,10-27Shalom a tutti.
Abbiamo visto, nella parashah Therumah, come nel
pensiero ebraico vi sia la santificazione del tempo nella creazione e nella
parola divina, e come il Signore conceda all'uomo di santificare lo spazio nel Mishkan.
"Una delle idee centrali dell'ebraismo - scrive la Shenkar - è il
concetto di un sacro che non può essere fissato; di un popolo che mira a una
terra ma che rimane sempre in viaggio, in un altrove; di una Gerusalemme non già posseduta ma
sempre da acquisire". E Bruno Zevi, in un saggio breve ma intenso, Ebraismo e concezione spazio
temporale dell'arte scrive:
"Gli Ebrei sono Ebrei in quanto
respingono la staticità delle cose e delle idee e credono nel mutamento e nel
riscatto". Coinvolto in una responsabilità creativa, non nella mera
contemplazione del creato, il costume di vita degli Ebrei è ritmato sul tempo.
Le loro solennità sono segnate, in larga misura, dalle stagioni e dai ricordi.
Nello Shabbath i
religiosi individuano la santificazione del tempo, di D-o, dell'esistenza.
"I Sabati - scriveva Herschel - sono le
nostre grandi cattedrali: il rituale ebraico può essere qualificato come l'arte delle forme
significative nel tempo, come architettura del tempo".
Lo vedremo anche a Pesach, quando l'uomo si libera da
ogni schiavitù e nella memoria ricomincia questo percorso di affrancamento da
ogni Egitto, dalla materia, iniziando ancora una volta il percorso che libererà
la sua anima. Non a caso alcuni testi cabalistici lo paragonano alla nascita,
quando il bambino lascia l'ambiente amniotico.
Dunque tutte queste disposizioni che il
Signore dà, devono essere lette in questa dinamica dello spazio tempo. Ogni
oggetto, ogni vestimento si caricherà, nei secoli, nei millenni a seguire, di
afflati mistici, di stratificazioni simboliche complesse e a volte misteriose,
moltiplicando lo spessore semantico di ogni dettaglio.
Troviamo nel Trattato dei Palazzi, Zohar, Bereshit 38a:
"Rabbi Shimon dice: Abbiamo appreso che, per creare il
mondo, il Santo incise i segni del segreto della fiducia nelle trasparenze
eminentemente segrete".
Ma Heschel scrive "l'insegnamento dell'ebraismo
consiste nella teologia dell'azione comune. La Torah sottolinea che l'interesse di D-o è
per il vivere di ogni giorno, per le consuetudini della vita. La sfida non sta
nell'organizzare grandi sistemi dimostrativi, ma
nel modo in cui gestiamo il luogo comune". Questo assunto fa dire a Zevi: "Per questo il nostro santuario può essere
una tenda sotto la volta celeste, un'arca mobile che segue il nostro itinerario. È
un tempio che si chiama scuola perché vi si insegna la storia, può essere la
scuola peripatetica del nostro errare, in quanto la storia è nel Libro che è in
noi".
Forse per questo nella Torah a volte il
Tabernacolo viene chiamato Mishkan a volte Ohel Moʽed. Ohel è la tenda,
Moʽed è il tempo delle feste, il tempo dell'uomo. Cosicché una traduzione possibile sarebbe Tenda
del Tempo.
Cogliamo un aspetto abbastanza criptico
del choshen, il
pettorale del Kohen hagadol: Lattes dice che è difficile leggere unanimamente un
qualsiasi simbolismo nelle dodici pietre incastonate e corrispondenti ai figli
di Yaʽakov e dunque alle dodici tribù.
Vediamo ad esempio come lo Zohar commenta:
"Queste dodici pietre preziose di Basso sono il riflesso sulla terra delle
dodici Tribù cosmiche del mondo della Kedushah. Su ciascuna
è inciso il nome della tribù collegata. Vedete subito come in ambiente mistico
ogni valore simbolico possa trovare un'accezione.
Per dovere di cronaca vi riporto di
seguito le rispondenze delle pietre con le tribù.
Prima fila: rubino-Reuven,
topazio-Simeone, smeraldo-Levi;
seconda fila: zaffiro-Giuda,
opale-Issacar, diamante-Zabulon;
terza fila: giacinto-Dan,
agata -Gad, ametista-Neftali
quarta fila: berillo-Asher,
onice-Giuseppe, diaspro-Beniamino
In effetti sembra evidente come questo
oggetto non avesse una concreta funzionalità liturgica ma piuttosto
rappresentasse altro da sè, dunque avesse un valore
trascendente.
Ma in qualche situazione, per evitare
autoriflessioni
ermeneutico-filosofiche, conviene appellarsi al Wittgenstein che
scrive: "In filosofia si corre sempre il pericolo di produrre un mito del
simbolismo o un mito del processo spirituale. Invece di limitarci a dire,
semplicemente, quello che tutti sanno e devono ammettere" o come scrive ancora
"Voglia D-o provvedere il filosofo di uno sguardo acuto per ciò che sta sotto
gli occhi di tutti". Dunque senza accedere forzatamente al gesunder Menschenverstand, al
senso comune evocato da Rosenzweig in "Dell'intelletto sano e malato" proviamo, a volte,
ad accordarci a quell'equivalenza fra pensiero ebraico e
intelletto sano che intravede Glatzer, o perlomeno "a quell'attenzione per
il concreto, l'individuale, l'irripetibile di ogni situazione singola che
percorre tutta la cultura ebraica e ne condiziona, sottolinea Levinas, le forme culturali più caratteristiche,
prima fra tutte il Talmud" (Gianfranco Bonola: Il disagio della
filosofia).
In
questo Midrash
la semplice pragmaticità ebraica:
"E farai delle assi per il
tabernacolo" (Shemoth 26,15).
E da dove provenivano le assi? Il
nostro Patriarca Giacobbe le aveva preparate. Quando egli giunse in Egitto,
disse ai suoi figli - figli miei, voi sarete liberati da questa terra e il Santo
Benedetto Egli sia, dopo la vostra liberazione vi ordinerà di costruire un
tabernacolo, perciò preparatevi fin d'ora e piantate dei cedri, di modo che essi
siano pronti quando Egli vi darà l'ordine di costruire
il tabernacolo - Senz'altro fecero così e cominciarono a piantare; è detto
infatti "le assi" quelle che loro padre aveva preparate (Tanchuma-Terumah).
Come
dire che mentre noi ci interroghiamo sui significati reconditi e sulle
simbologie i nostri padri si sono armati di seghe e pialle e si sono detti
"Bene, andiamo a prendere la legna!".
Shabbath shalom
Shabbath shalom
Israel Eliahu
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