Alois Heinrich Priechenfried: Rabbino seduto
Israele Piperno camminava volentieri lungo il muro che
costeggiava il giardino della grande villa;
il sole si insinuava fra le vecchie pietre, rimandando un tepore gentile, che confortava
quel suo incedere lento, dolorante come una cantilena. Ogni mattina contava i
passi sull’acciottolato; conosceva le pietre una ad una, i muschi fragranti, le
macchie verdastre del salnitro, il rosso di qualche mattone che costellava, di
tanto in tanto, il vecchio travertino; una geografia tinta di magia, un atlante sognato, un mondo nel quale, se non
altro, poteva riconoscere i lunghi viaggi mai compiuti, gli oceani solcati nei
giochi dell’infanzia, l’oltremare verso le cui terre tutti i suoi fratelli erano un giorno partiti
e da dove non avevano mai fatto ritorno. Ad una pietra, più bella delle altre,
per colore e sfaccettature come una gemma d’oro e d’azzurro, aveva riconosciuto
il nome di Gerusalemme ed ogni giorno la carezzava mormorando leshanà haba’à bYrushalaym.
La cinta nascondeva il grande parco, svettavano le braccia ossute
degli alberi in inverno, parevano arrampicarsi per fuggire altrove, fuggire da
quella silenziosa prigionia. Il palazzo era abbandonato a sé stesso e alle
ingiurie del tempo, il giardino incolto. I signori che lo avevano abitato erano
partiti una notte di alcuni anni prima, in grande segreto. Nessuno aveva mai
saputo cosa fosse accaduto. Si era mormorato allora, di una terribile
disgrazia, o una fuga oltre confine, per una grave minaccia. Israele non aveva mai avuto curiosità di guardare
al di là del muro, oltre la siepe di biancospino perché, l’avesse fatto, la sua cosmografia
personale si sarebbe accartocciata trascinando con sé quell’universo
fantastico.
Un giorno di ottobre
nel millenovecentotrentotto, Israele si fermò davanti alla sua Gerusalemme e
dopo una breve preghiera pensò che era davvero troppo vecchio per partire, era
troppo solo, e che quel viaggio avrebbe
dovuto farlo in gioventù, quando alcuni conoscenti lasciarono Roma per Eretz
Israel. Non ne aveva mai avuto notizia. Anche il Rabbino non sapeva che dire, non
restava che sperare per il bene loro e per la terra lontana degli Ebrei. Ormai
tutti i ricordi si dilavavano come acquerelli su carte leggere, in trasparenze
opaline. Anche gli occhi ormai lo stavano abbandonando, il suo mondo era
confuso in immagini evanescenti, diafane, incerte. Conosceva i suoi passi
perché ogni giorno si recava in Sinagoga. Non aveva bisogno di leggere il
Siddur poiché conosceva le tefillot a memoria, o meglio vivevano lì, insieme a lui,
nascoste fra le pieghe della sua pelle, abitavano nella barba e sotto il cappello.
La preghiera aveva scandito i tempi delle sue giornate sin dall’infanzia.
Ricordava anche il Seder di Pesach a memoria, ma da molti anni nessuno lo ascoltava,
le sedie erano vuote, la tavola disadorna e le canzoni dei bambini solo echi lontani,
confusi fra le tante voci del suo passato.
Guardò la sua bella città celeste e verde, tinta d’oro e di
luce che il sole rimandava in mille cristalli di resine odorose. “ Ah l’anno
prossimo …”. Gli occhi si bagnarono di
tenerezza. Guardò la sua ombra sul muro, sembrava uno spauracchio cui nemmeno i
passeri davano più compagnia. Povero vecchio, commosso davanti alla sagoma di
sé stesso. Guai a sopravvivere, si finisce così, soli, i vestiti consunti dacché non val pena sperperare per così poco,
aspettando che l’Altissimo ci chiami a rendere conto dell’aver vissuto. Però ci
si dà pace, senza guardare lontano. Israele sospirò e si apprestò a
ricominciare il cammino. Toccò la pietra un’ultima volta e vide allora che
vicino alla sua ombra ce n’era un’altra; si voltò dunque per vedere chi fosse,
ma non vide nessuno. Rannicchiò l’anima per l’inaspettata scomparsa dell’occasionale
compagno di strada. Dunque andava di fretta e avrà per certo pensato il male di
un vecchio che parla ai muri. Riprese il passo ma s’avvide che la sua ombra non
era sola, un’altra la seguiva; l’ombra di un uomo. Si voltò Israele, nessuno!
Così risolse, con discrezione ed un po’
di vergogna, di chiedere all’ombra.
– Siete dunque uno spirito, signore, o uno spettro della mente? Questo
succede a fingersi il cosmo, negli arabeschi
dipinti dalle muffe sulle pietre ? –
– No, siate
certo. Io sono l’ombra del Barone che abitò questa villa –
– E come
potete voi, un’ombra, parlare? – Chiese il vecchio Ebreo – e avere una vita
vostra, disancorata dal corpo? Di che vivete, di che si nutrono le ombre?
– Vedete
– rispose – il Barone fuggì in grande fretta, lasciando qui, a vegliare
sulla casa, gli arredi, i dipinti, gli strumenti per musica, l’intera
biblioteca ed anche me, confuso nel buio della notte –
Piperno non si spaventò certo, da molti anni discorreva con
le ombre che popolavano i suoi ricordi, ma questa non faceva parte della sua
vita, ignorava persino che quella fosse una villa Baronale. Pensò – Per fortuna
non ho nessuno a cui raccontare questa bizzarria, lo stesso Rav mi canzonerebbe come un vecchio in
delirio .
– Dunque
Signore, buona giornata, proseguo il mio
camminare, prima che passi l’ora – e seguì i suoi passi lungo il vecchio muro,
senza voltarsi.
– A domani, mio buon amico –
Che dire? Certo il caso era curioso, e lo stesso Israele
pensò che se per qualche sortilegio, la sorte avesse scelto lui per stupire gli
umani, avrebbe per certo sbagliato il bersaglio della sua freccia. Quante ombre
già popolavano le sue giornate e discorrevano con lui davanti al povero fuoco
della sua casa, o venivano di notte, quando si raggomitolava su un giaciglio di
granturco, per tenere bordone ai suoi
pensieri. Spesso dall’aldilà veniva a
trovarlo un vecchio Rabbino in cui Israele, in gioventù, aveva confidato per
proseguire gli studi. Era morto ormai da almeno quarant’anni, eppure ancora gli
chiariva alcuni passi del Talmud che riteneva particolarmente sapienziali. Ognuna
di queste ombre, ben lo sapeva, era
stracciata dalla sua memoria, si figurava perché ne sapeva ricordare il
profilo, la voce; ma costui, che si avventurava solitario nel giorno, all’offesa
della luce, era uno sconosciuto; e parlava con voce stentorea, non già
sussurrando all’orecchio, com’è costume delle ombre. – Potrebbe essere un Dybbuk
– pensò Israele – fuggito a qualche ossame nella sabbia santa, tanto vicina che
si vedono gli alberi del
viale –
Prima di girare l’angolo che a fine della strada apriva
sulla piazzetta dove si affacciava la Sinagoga, Israele si voltò ma, poiché non
vide alcuno, si rasserenò pensando ad un abbaglio della solitudine e si
confortò al pensiero che nessuno avesse veduto quel vecchio con la barba
arruffata rivolgersi, seppur sommessamente, al nulla.
In altri tempi si sarebbe certo rifugiato sui libri per
risolvere questo mistero autunnale, ma ormai non c’era alcunché che potesse
turbare il suo modesto riflettere sul mondo e la sua pace. Il Santo Benedetto
aveva creato le cose visibili, ma anche quelle invisibili agli occhi degli
uomini. Doveva dunque farsi grande
meraviglia dell’ombra dimenticata da un goy?
Il giorno seguente non si stupì affatto di ritrovare l’ombra
del Barone. Era una giornata serena.
Per la verità Israele accennò appena un saluto curvando
leggermente la schiena, ma l’altro gli si fece incontro con familiarità
inusuale.
– Avreste bisogno di una palandrana nuova, la
vostra è consunta e rabberciata. Il vostro cappello non ha forma, e fatevi una buona
volta la barba. Sentite, il Barone ha lasciato gli abiti nella villa, sono
nuovi e di stoffe pregiate. Ci sono decine di cappelli di fogge svariate,
scarpe appena calzate ad un ballo. Seguitemi dunque e potrete vestirvi di nuovo
e di panni caldi –
Il vecchio disse che lui non aveva altre necessità se non
quella di terminare il suo cammino verso il Bet haKneset, in pace e senza
preoccuparsi degli abiti che, per certo, non interessavano a Kadosh BarukhHu.
Dunque per quanto apprezzasse la gentilezza doveva rifiutare l’inaspettato
invito.
– Potrebbero oltremodo
confondermi con un ladro. Che potreste dire voi a mia discolpa ? Vi figurate la
scena ch’io chiamo a testimonio qualcuno che a stento si palesa in uno spicchio
di luce? –
– Senti vecchio – cambiò tono alle sue parole – Sono tempi bui
questi. Il mondo sta precipitando in
un abisso informe e senza luce. Sai che sarà di te? Diventerai preda alla
ferocia di altri uomini. Ti perseguiteranno
per gli abiti che porti. Taglieranno la tua barba e i cernecchi. Rimarrà di te
un corpo nudo e piagato. Nessuno ti cercherà, ombra fra le ombre. Cambia questi
abiti, chi potrà riconoscerti ? Affrettati, già partono i treni, Piperno –
– Piperno ! mi conoscete allora ,
questi sono io – mormorò Israele – Dunque chi volete che si preoccupi di me.
Sappiate che il mondo mi ha già dimenticato da molto tempo – e salutò con
deferenza riprendendo il cammino.
Certamente le parole, amare come la profezia di Amos, inquietarono
il vecchio Israele, ma più d’altro gli sovvenne che non aveva scarpe per
l’inverno e quelle che portava avevano le suole bucate, non tenevano più la
pioggia né il freddo. Che male ci sarebbe stato ad accettare un piccolo dono,
per altro non richiesto?
Il giorno seguente qualcosa era cambiato. Un cielo cupo e
basso soffiava sulle foglie secche dei platani facendole turbinare in mulinelli
sonanti. Quando Israele arrivò a Gerusalemme si avvide che l’impalpabile compagno
dei giorni precedenti non c’era. – Hinnè, ed ora che farò? Dovrò forse passare
l’inverno senza nemmeno un paio di scarpe calde e con questo vecchio pastrano? Ah sono stato ben ingannato, povero me. Se ne
è andato quel goy, con i miei vestiti nuovi e, soprattutto, con le mie scarpe!!
Un Dybbuk malevolo mi ha sbertucciato –
Con il vento gelido che saliva dal viale aveva di che
lagnarsi. Tornò brevemente sui suoi
passi per accertarsi che il portone della villa fosse davvero chiuso. Nessuno.
Accarezzò ancora la sua pietra azzurrata. – Povero me – piagnucolò – che accadrà, che
avrà voluto dire l’ombra? Quali sono le tenebre che si addensano all’orizzonte? Può esserci dunque una vita più tetra di
questa mia? Esiste un vivere peggiore di questa solitudine, di questo andare e
venire lungo un muro di sogni e di
ricordi? – Il vento parve aver ascoltato le
parole di Israele, soffiò sulle nubi e un sole malaticcio disegnò di nuovo le
ombre contro il muro; il vecchio si delineò nel suo profilo stanco. Fu allora
che vide distintamente la sua ombra distaccarsi da lui, cavalcare la cinta con
l’allegrezza di un bambino e scomparire nel grande giardino, al frusciare delle
siepi.
Quando le guardie trovarono il corpo di Israele Piperno,
morto sulle sue gambe, afferrato ad una pietra stellata, dissero che, in fondo,
si era risparmiato una fine peggiore.