Quando ogni altra voce fu sospesa, non corse lo zoccolo del cervo, e il cielo si tacque di preghiere e di tuono; quand’anche il lamentare dell’acqua sulle pietre del borgo si spense, allora udimmo le parole. Distintamente, rotolate come ciottoli dalla montagna, sospese nel silenzio fra un balzo e l’altro. Non era il canto della giovanetta perduta nel dirupo, né la fame insaziata della bestia che, al limitare della terra di maggio, scrutava le luci nelle case, dove le nostre figure apparivano ombre, ombre come fummo e siamo. Accendemmo i fuochi ché il maledetto non colpisse di nascosto, sicario fra le ombre che il vento spingeva, con crepitio di ramaglia. Nel bagliore della fiamma, protendemmo le mani, col gesto benedetto.
Ancora a sentinella, sul
varco del fienile restò l’agnello, che di sangue bagnò le porte, testimone che
un giorno noi fummo i salvati.
Disse il saggio Chaim “Sono
parole che non so comprendere, un suono antico di uomini caduti. Resti
chiusa la porta e si pongano i segni e i lumi alla difesa. Sarà il soldato di
cuoio e di ferro nutrito che porterà la forza; contro la voce che dal nulla procede,
altro nulla si chiami”.
Nella notte nessuno cammina,
nessuna parola si fa materia
nell’ombra, tutto è vano
quando non si può vedere, né lo spirito corre nel buio.
Vano è il timore del nulla,
ché ogni fantasma può apparire, ma nessuna parola si fa materia.
Sprangammo le porte e il
calice d’argento del profeta fu posto sul desco, di vino e d’argento come fu
comandato.
Fuori, nel cielo, le tre
stelle portarono le tenebre; e un gelido vento sibilò dal bosco fin nella valle
dove spense il luccicare dei bastioni, per sempre. Perché non c’è sentinella
che vede nell’oscurità; lugubre era l’ombra che portava lamento da lontano,
come pece che bolle, la veste nera del peccato, la fosca profezia della coscienza.
Scivolò per le strade un
orrendo fetore, di solfo, di demonio, di carcame che vomita sanie; una malsana
resina che come un cancro alla carne si appiglia, coll’ugne s’attanaglia e
squarta e squarcia, come alla giostra sbrana la zagaglia.
Prendemmo sale dalle botti, e
con sale purgammo i figli, ma il nutrimento cagliò sui loro visi di latte e di
vermiglio, il marchio a fuoco, l’orrendo sigillo della peste nera.
Nera come l’orrida tenebra
che la partorì, come il cuore spaccato del bue.
Coprimmo i pozzi rilucenti,
che la morte non si guardasse, non si riconoscesse nello specchio
sull’acqua; shivà contammo, shivà contammo, un giorno dopo l’altro
cominciando da capo.
Come in un sepolcro
avvolgemmo il tallith sul nostro lutto.
Suonavano le campane da
Worms, da Darmstadt, da Mannheim.
Cavalcarono i Cavalieri di
Cristo, armati di lancia e d’onore del fuoco, che l’universo monda
nell’olocausto.
Dal bosco giunsero urlando,
con voce tonante al galoppo, come tempesta l’orda flagellò gli orti, scannò le
bestie del pascolo. Cavalcarono i Cavalieri di Cristo, scoperchiarono i nostri
pozzi, così la morte si specchiò sull’abisso; non la peste ma gli uomini
riconsegnarono alla terra quelli fra noi che erano ancora vivi.
Israel Eliahu
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