“Vattene
– io gli gridavo – canzone dello sheol. Tu non sei di questa terra. Fuggito ad
altri cosmi incompiuti. Nato senz’ombra nel ventiseiesimo mondo, malriuscito,
ricacciato nel buio universo, senza luce, senza volta del firmamento”.
A
volte lo minacciavo col pugno e sputavo sullo sdegno e la paura che sempre mi
portava come dono. Sentivo il suo passo veloce lungo il muro, ma ogni vetro ne
custodiva la figura.
Vattene – gli dicevo – questa casa è il Beth
consacrato al Signore, porta il segno sullo stipite e brucia sempre una fiamma.
Ma
lui contro i vetri batteva le unghie, a malapena traluceva la sua sagoma scura.
Rigurgitava gli arcani di una lingua mai udita e altre fiamme luminavano sulla
fronte come ferite, sulla barba trapuntata di bianco.
Mai,
neppure la notte trovavo silenzio. La sua anima nera ronzava sul mio sonno,
avevo dimenticato la pace.
– Non ho figura, non ho figura, maledetto, che ti spalanchi la carne e ti offra
al grido immenso della notte, che nelle acque ribaltate del tuo mondo ti
sprofondi. Nessuno dopo le generazioni porterà il tuo seme –.
Io
la notte pregavo, dilaniavo le pagine, i salmi furono mio nutrimento. Sempre fu
il mio cantare, di pietà e d’amore.
E
lui taceva nelle ombre, ascoltava per trarre giovamento, finché non ne conobbe
la lingua, per fare di me suo controcanto.
Di
giorno mi pareva d’avvertire il suo respiro d’animale, ansante oltre la porta,
ma dalla grata solo la strada assolata e il suo fermentare portavano notizia del
brulicame umano.
Sempre
baciavo la mezuza per consacrare il mio mondo che dentro queste poche mura rendeva
l’onore del passo alla vita che mi resta.
– Non puoi entrare qui – gli gridavo, ma la voce tintinnava di echi e di
riflessi, ed io stesso non ne coglievo più il senso – questo è il mio santuario
– dicevo.
Una
sera d’inverno, leggevo il salmo ventidue, com’è d’uso piangendo, fu allora: “Ma
io sono un verme e non un uomo, obbrobrio dell’uomo e disprezzato dalle
nazioni. Tutti quelli che mi vedono ridono di me, aprono la loro bocca in una smorfia
e scuotono il capo” fu allora che sentii il suo fiato ancora più d’appresso,
dietro la porta, sentii le sue fauci rivolte contro me, come
nel salmo il leone in agguato.
Avvertii
i suoi occhi scrutarmi, ma quando mi voltai non vidi che ombre del fuoco contro
i muri, nessuna polvere mulinare nel vento, né orme del suo passo. Ero solo, circondato dai cani della notte che
latravano nelle tenebre.
Così
il mio cuore si sciolse come cera nel sole. Piantai salici e palme e mirto e
ricino, nei cortili, che dalla terra traessero sostanza e confondessero le vie
che conducevano alla mia porta, ma la frescura e l’ombra diventarono la sua
dimora, mi pareva di sentirlo dormire nel giardino ad attendere il mio sonno
per ogni sua nuova veglia. Nascosta dal verde la mia casa divenne un asilo di
silenzio per il suo cantico nuovo. Di me dimenticarono le genti, gli uomini si
allontanarono dalla mia strada, la mia eredità fu la sua cantilena e la mia
umiliante sottomissione alla paura.
E
lui mi ripagò con le sue beffe, mi nascose ai nemici e alle genti straniere che
portavano stoffe colorate e nardo e calamo, il galbano e l’incenso.
Nelle
lunghe veglie della notte intonai il tuo nome Signore, ma la sua voce stridula,
accompagnò a discanto la mia voce, come bisbigliano le donne nella stanza del
morto.
Le
ombre non si fanno prigione, così il mio cuore decise che era tempo per scrutare
il volto del nemico. Accesi le braci ad ogni angolo, il rosso styrax, il
balsamo giallo di Siria, l’incenso del deserto, il bianco d’Arabia per dare
corpo all’aria e vedere la figura del mio persecutore prendere forma e natura,
dacché per uccidere il nemico bisogna vederlo.
Io
ti invocai nel giorno del dolore Signore – strappa la mia anima dalla follia –
perché continuarono le risa dello scherno, appena udibili all’orecchio. Presero
forma le figure del sogno, vidi fuggire gli spiriti del padre e della madre,
della donna che di me fece culto, del mio maestro antico, gli amici perduti della
giovinezza. Rimasi solo in un dolore immenso, in un dolore immenso, cullato
dalla nenia triste del maledetto, perché per uccidere il nemico bisogna
conoscerlo.
Allora
murai le finestre, e le porte, ogni fessura della pietra – non entrerai qui, questa è la mia anima consacrata, non sentirò la tua voce in questo silenzio,
non vedrò la tua ombra in questo buio –.
E
in questo buio presi dimora.
Fu
allora che sentii il suo respiro accordarsi al mio, nascosto con me in questa
tomba, a distillare le ore e i giorni, muffe del tempo di verde e d’argento.
Dalla
profondità di questo orrido io non risorgerò. Qui non c’è vento, non c’è
parola, in una lingua straniera legge la preghiera di ogni giorno, la carogna
che ha fatto nido sulla mia schiena.
Non
morirò, vivrò per dare testimonianza in questo carcere, muta la voce che fa
partorire le cerve. Il ventesimo giorno nel mese di Sivan dell’anno 5771 del ventisettesimo
mondo creato.
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