ORARI DI SIRACUSA
Accensione ore 16.26
Havdalah 17.26
Come sempre cerchiamo di cogliere nella Parashah della settimana lo spunto per una riflessione.
Dante Lattes, nella sua
derashah in Nuovo Commento alla Torah, segnala che nel verso XXXVII, 35 “Io voglio scendere da mio figlio,
piangendo, nello Sheol” si possono
scoprire le tracce della credenza
dell’immortalità dell’anima… Frase che potrebbe significare che Egli vuol continuare per tutta la vita,
fino al suo ultimo respiro, fino al suo ultimo giorno, a piangere il figliuolo
suo e che nulla può confortare il suo dolore; oppure che anche nella fossa continuerà a piangerlo. Ma ciò non può esaurire il contenuto della
frase “io voglio scendere da mio figlio nello Sheol” per cui si deve ritenere che Giacobbe credeva di ritrovare un giorno suo figlio nello Sheol dove i trapassati
avevano il loro soggiorno e che solo allora avrebbe cessato di piangerlo”.
Se noi consideriamo il testo Toraico vedremo che mai si parla di
escatologia o di sopravvivenza dopo la morte. Anche la giustizia retributiva è
a breve corso. Se tu obbedirai ai miei precetti io ti darò la rugiada, le piogge, farò crescere i
tuoi raccolti. Ti darò abbondanza di figli e prosperità. Non c’è mai un premio per una vita futura. Ciononostante, sostiene Elia Benamozegh, il grande Rabbì, teologo, e filosofo di Livorno, l’intero Tanak è costellato di “indizi” che rimandano ad una credenza della sopravvivenza dell’anima dopo la morte nonché ad una distinzione netta fra corpo ed anima. A volte il corpo viene chiamato campana e l’anima il battaglio (Ber. 41,8) a volte fodero e l’anima una lama, oppure l’anima viene paragonata ad un liquido contenuto in un vaso.
Si riteneva che l’anima,
intesa come quel nishmat chaym che D-o
aveva insufflato nella materia, trasformando l’uomo in un nefesh chayah, morisse
con il corpo: “I morti non vivranno più, le
ombre non risorgeranno” (Yeshaʽyahu 26,14).
In Qohelet cinicamente non si
trova speranza di un altrove: “Tutto viene dalla polvere e nella polvere
ritorna”.
Insomma, nell’uomo corpo e
anima sono indissociabili, quando muore l’uno muore l’altra. In effetti, dopo
la morte, non si parla nemmeno più di corpo ma solo di cadavere.
Torniamo a Benamozegh che a proposito del passo della nostra Parashah
scrive: “Giacobbe non può certo alludere
alla tomba stessa dato che riteneva il figlio sbranato dalle belve e quindi
il suo corpo non poteva certo riposare accanto al suo”. Comunque, i passi dove si può evincere di una sopravvivenza dopo la morte sono, secondo il livornese, moltissimi. Per questo però vi rimando alla lettura dei testi di Benamozegh.
Vi ricordo che anche quando
Moshè acquista la grotta di Machpelah pensa ad un ricongiungimento di Sarah con gli
avi.
A ben considerare, il tessuto
culturale e religioso dei popoli semiti nel quale matura la vicenda ebraica è
permeato di una religiosità che rimanda ad una vita oltre la morte e alla
sopravvivenza dell’anima. Questo tuttavia non ci esime dal considerare che
comunque il Signore non ne fa menzione esplicita.
Testi come “Io faccio morire
e faccio vivere, io ferisco e risano” (Dev. 32,29) hanno una soglia di ambiguità
semantica che lascia propendere per diverse interpretazioni. Anche il fatto che in ebraico non ci sia un
singolare per vita ma solo il plurale chaym, può lasciare intendere sia una molteplicità esperienziale come nascita, pubertà adolescenza maturità
vecchiaia, sia una possibilità di vite successive.
Comunque, parliamo sempre di Torah, semmai si pensava ad una forma di sopravvivenza in modo molto confuso e velato. Dice ancora Qohelet: “I vivi sanno che moriranno, i morti non sanno niente”.
Anche il luogo stesso dei
morti è ambiguo. Viene chiamato Sheol,
cioè abisso, ma di che si parla? È il sepolcro o un luogo dove vanno i morti? A
volte si trova anche l’espressione sachat che vuol dire fossa. Comunque, parliamo sempre di Torah, semmai si pensava ad una forma di sopravvivenza in modo molto confuso e velato. Dice ancora Qohelet: “I vivi sanno che moriranno, i morti non sanno niente”.
In Ezechiele, ci ricorda Rav
Caro in una delle sue lezioni, si parla
di una terra sottostante, ma potrebbe sempre riferirsi all’inumazione, in Giobbe si parla di terra dell’oscurità. Chi
nello sheol canta le tue lodi? Dunque nel periodo Toraico non si può parlare di al di là né di un'anima
distinta dal corpo. Tutti ci si riduce
come larve a mangiare polvere nello sheol.
Soltanto nella contaminazione
con la cultura greca si comincerà a profilare una filosofia
sull’immortalità dell’anima.
Probabilmente solo nel
secondo secolo, era antica, si trovano tracce di questo nuovo e rivoluzionario elemento:
“Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno. Gli uni alla vita eterna,
gli altri alla ignominia perpetua (Daniel 12,1-2).
Teorie sulla sopravvivenza dell’anima, come quella contenuta in Maccabei
7,14, troveranno una forte opposizione da parte dei Sadducei proprio perché
estranee al corpo Toraico ma troveranno accoglienza presso
i Farisei e anche nella componente ebraica che sfocierà nel cristianesimo. In epoca medioevale molte di queste teorie troveranno accoglienza nella mistica ebraica. Si definiranno i concetti di anima ma sempre in modo misterioso e con alcune sfere condivise da varie scuole, ma non da altre.
Quella che segue è una
sintesi:
Nefesh cioè l’anima
vitale, condivisa anche con gli animali. La parte inferiore, l’istinto. Si
informa al corpo al momento della nascita.
Ruach Lo spirito. Che governa l’etica, la forza morale che
discerne e considera.
Neshamah la parte intellettiva e spirituale dell’uomo, sede
della conoscenza e della coscienza.
Chayyà La parte dell’anima che consente di partecipare al
senso spirituale superiore della divinità.
Yechidah ovvero l’unica, L’anima più elevata che si
ricongiunge al creatore .
Questi concetti vengono
diversamente espressi se formulati nello Zohar o in altri testi.
La prima sistemazione ordinata la troviamo in Maimonide che nella Guida
dei perplessi rilegge in chiave
aristotelica la questione dell’anima e della sopravvivenza oltre la morte.
Aristotele, lo ricordiamo, aveva individuato un’anima vegetativa, una
sensitiva e una razionale, mentre Platone aveva distinto in anima concupiscibile, irascibile e
intellettiva. Sarebbe lungo vedere ulteriormente il dogma della resurrezione dei morti (techiyat hametim), la teoria della trasmigrazione delle anime (gilgul neshamot) nata in ambiente cabbalista. Si ha la sensazione che tutto sia maturato da contaminazioni con la mistica cristiana ed islamica ma che in fondo non ci appartenga.
Vi trascrivo due opinioni.
Rav Luciano Caro:
Un Ebreo il quale in buona fede sostenesse di non
credere assolutamente alla sopravvivenza dell’anima e che con la vita terrena
sia tutto finito, nonostante quanto dice Maimonide, è comunque perfettamente
Ebreo. Nessuno può essere giudicato per quello che crede o non crede (in questo
ambito). Maimonide ha scritto queste cose perché è stato costretto in qualche modo
dalla situazione del tempo, ma questo non fa parte della dogmatica ebraica.
Il nostro Rav Scialom Bahbout
intervenendo ad un Convegno (vi trascriveremo appena possibile il testo del
discorso) ha esordito dicendo:
È molto difficile parlare
della questione dell’anima, perché in realtà l’ebraismo non si occupa molto di argomenti “teologici” ma si occupa più
di aspetti pratici e quindi, quando parliamo di queste cose parliamo sempre di
aspetti che sono molto discutibili. Vi sono molte posizioni per quanto
riguarda gli aspetti teologici mentre per quanto riguarda gli aspetti pratici c’è una
sostanziale convergenza per cosa
bisogna fare e cosa non bisogna fare; per quanto riguarda invece la
riflessione sugli aspetti più teologici invece vi sono molte opinioni.
Dunque prima di avventurarci
in una dogmatica ebraica riguardo alla dottrina dell’anima e dell’oltre vita è
meglio ben conoscere quanto è scritto nella Torah e ricordare che Le cose
occulte appartengono al D-o e a noi appartengono le cose rivelate
Shabbath Shalom
Israel Eliahu
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