giovedì 12 dicembre 2013

Estratto della conferenza LA CULTURA EBRAICA NELLA DIASPORA TRA ASSIMILAZIONE E RITORNO AD ISRAELE, tenuta da Dario Israel Eliahu Sutter il 21 novembre al Centro Culturale Ottavio Musumeci di Siracusa



Cominciamo da lontano, questo ci darà la possibilità di comprendere la contemporaneità di un popolo “dalla dura cervice”, unico sopravvissuto fra tutti i popoli che la storia ha ingoiato negli ultimi millenni. Sopravvissuto a lotte guerre, persecuzioni, catastrofi, senza mai avere perduto un principio: quello della identità religiosa, quella di ʽAm Israel, di unità anche quando mutavano lingua, patria, dogmi, maestri. Sola, rimaneva immutabile fonte di credo di sapienza e di giustizia, ma anche libro della memoria del zachor, RICORDA: la Torah.
Partiamo dunque dalla Torah, dal primo dei devarim, i comandamenti.
“Io sono il Signore Id-o tuo che ti feci uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi.
Non avrai altri dei al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra.
Non ti prostrare loro e non adorarli poiché Io, il Signore D-o tuo, sono un D-o geloso, che punisce il peccato dei padri sui figli sino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano. E che uso bontà fino alla millesima generazione per coloro che mi amano (Esodo, 20, 1-6).
I primi due devarim sono quelli che governano il rapporto degli uomini con D-o. Il Signore punisce sopra ogni altra cosa la ʽavodà zarà, cioè l’idolatria. Pensate dunque che bella sorpresa per Moshè, al suo ritorno dal Sinai, trovare un idolo, un vitello d’oro. Ma il vitello d’oro, ci spiega il midrash, non è altro che l’eredità idolatra del bue sacro agli Egizi, ed una pur piccola parte del popolo dell’esodo era Egiziana. Dunque la commistione di due religiosità differenti, di due credo diversi, fonde il primo ostacolo al cammino del popolo d’Israele nel deserto. Per questo D-o attraverso il suo profeta Moshè mette in guardia e proibisce i rapporti con altri popoli qualora possano portare al rischio di idolatria. Vero è che basta l’accensione di un fuoco estraneo e quindi idolatra a decretare la morte di Nadav e Avihù, figli di Aharon (Levitico 10,1 e seguenti Parashah Sheminì).
Vediamo nella Parashah Vayshlach, come Jaʽakov rifiuta di seguire il fratello Esav per ricostruire la famiglia sulla stessa terra, nonostante l’offerta fosse il completamento della rappacificazione, proprio perché Esav si era sposato con una cananea, cosa alla quale poi cercò di rimediare, dato il dispiacere causato ai genitori, sposando una discendente d'Ismaele, quindi di Avraham.
Fu quella la terza moglie, Basmat, detta anche Machalat, nome o soprannome che evoca appunto un desiderio di perdono, in questo caso per aver sposato una goya.
È proprio attraverso il coniugio, le relazioni sessuali, il matrimonio misto che il rischio di assumere comportamenti idolatri si fa più pressante.
Nella Parashah Balac si narra di quando Israele stette in Scittim e il popolo, la parte maschile evidentemente, cominciò a fornicare con le figlie di Moav. Le quali proprio attraverso i rapporti sessuali inducevano poi gli Ebrei a fare sacrifici e a prostrarsi ai loro idoli. Israel si congiunse al Baʽal Peʽor e l’ira del Signore si accese contro Israel. Il Signore condanna a morte tutti coloro che si erano resi empi. Solo quando Pinechas trafigge con la lancia un Ebreo che si stava congiungendo ad una Midianita si arresta la carneficina, ma i morti di quella strage sono 24.000 (Numeri, 25 1-9, parashà Balac).
Dunque vediamo quanto sia violenta la condanna per chi si macchia di ʽavodà zarà ma il problema, attenzione, non è di natura solo teologica né di morale sessuale, per proibire il coniugio con altri popoli. Il problema è anche la perdita patrimoniale. Il matrimonio ebraico sigillato da una ketubah è un contratto che prevede in caso di ghet, divorzio (solo il maschio può chiederlo o concederlo) la corresponsione alla moglie di un patrimonio che viene definito appunto in un atto legale pubblico. Quindi in caso di ghet ci sarebbe una perdita patrimoniale della famiglia e conseguentemente anche della tribù di appartenenza se la moglie non dovesse essere stata Ebrea. E anche il levirato, cioè il matrimonio della vedova con un fratello del marito sembra essere un meccanismo che impedisce la perdita di sostanza e di patrimonio all’intero gruppo familiare o tribale e non solo la volontà di dare discendenza al fratello morto. Da questo si può desumere come il vincolo a sposare una persona dello stesso popolo sia fondamentale ai fini della conservazione dell’eredità sia spirituale che materiale.
Oggi il problema è particolarmente sentito, in particolare in diaspora, molto negli Stati Uniti d’America ed anche in Italia.
È uscito recentemente un libro di Alan Dershwitz che si intitola “The vanishing American Jew” nel quale l’autore mette a fuoco quanto i matrimoni misti interreligiosi, ormai al 58% fra gli ebrei ortodossi ma al 71% fra i reformed, stia minando non solo l’identità ebraica ma metta in forse la sopravvivenza della più grande comunità ebraica della diaspora. Questo è dovuto al fatto che secondo la legge ebraica i figli di una coppia mista non sono Ebrei e cito da un articolo di  Giulio Melotti sul foglio quotidiano, si è parlato di Genocidio spirituale e annichilimento del popolo ebraico, della sua identità, della sua eredità. ”I figli nel 70% ricevono un educazione laica nelle scuole pubbliche e, soprattutto una buona parte non riceve il dono della Milah, della circoncisione, patto primo di D-o con Avraham. Un ebreo non circonciso non può partecipare alla vita religiosa, ovviamente non farebbe il bar mitzvah e non potrebbe partecipare alla preghiera pubblica. Certo potrebbe avere anche una vita sociale in contesto ebraico se nato da madre ebrea, ma a che servirebbe se non ad avere un’identità non partecipativa? Gli ebrei riformati oggi assecondano le leggi o comunque le tendenze di opinione di alcuni stati e di parte dell’opinione pubblica preferendo che il ragazzo raggiunga l’età in cui può autonomamente decidere se farsi circoncidere o meno.
Anche riguardo alla macellazione rituale, alla shechitah, che ha una forte valenza religiosa: viene osteggiato da animalisti e da regole che vengono imposte dalla fra virgolette società civile, pregiudizi frutto di ignoranza di persone che non sanno l’enorme rispetto che hanno gli ebrei per gli animali, se considerate che il Signore ci impone di rispettare di Shabbat anche il riposo degli animali, di non attaccare allo stesso giogo un animale forte ed uno meno, di prendere le uova da un nido se la madre è nei pressi.
Il problema dell’identità ebraica nel matrimonio misto si avverte in particolare quando la moglie non è Ebrea poiché sapete che l’ebraicità e materlineare. È Ebreo chi nasce da madre ebrea o si converte. I figli del patron di Facebook Mark Zuckenberg, ad esempio, non saranno Ebrei. L’eredità materlineare non è un’indulgenza al femminile: anche se non è certo, potrebbe derivare dal fatto che nell’antichità era costume uccidere tutti i maschi del popolo vinto in battaglia, tenendo come preda le donne; nel nostro caso con questo escamotage si preservava l’eredità ebraica dando alla madre questo diritto. Non ve la voglio barattare, come verità, è solo un’ipotesi credibile formulata da uno storico. Comunque l’evidenza ci dice che il patto primo, il berit, il Signore lo fece con Avraham, attraverso la circoncisione, e Itzchack fu Ebreo perché figlio di Avraham e così Jaakov etc.
Tornando alla situazione americana e inglese dei matrimoni misti possiamo affermare che due terzi dei matrimoni ebraici stanno producendo bambini non Ebrei. La situazione in Italia non è migliore, il problema non solo è molto sentito ma sta conducendo a perdite significative nella già esigua popolazione Ebraica. Secondo una statistica condotta dal settimanale Pagine Ebraiche il matrimonio misto è la prima fonte di perdita delle già stremate comunità ebraiche italiane. Vi sono altri motivi che adesso tenteremo di analizzare ripartendo dall’inizio, o quasi, per capire la progressiva laicizzazione del popolo d’Israele, così come è avvenuto per il Cattolicesimo in Italia e altrove. La secolarizzazione nel mondo ebraico che oggi mette a rischio la stessa sopravvivenza delle comunità ebraiche è la progressiva laicizzazione, a mio avviso una delle possibili tattiche di autodifesa dal millenario antisemitismo. Purtoppo molte persone anche secondo sondaggi italiani si riconoscono nell’identità ebraica intesa come popolo, come depositari di tradizioni millenarie, di una cultura con forti specificità ma la fede e la vita religiosa stanno scomparendo dagli orizzonti delle nuove generazioni.
Amos Oz, uno dei più famosi scrittori israeliani, laico dichiarato, scrive:
“I laici consapevoli non cercano tranquillità bensì inquietudine intellettuale, amano le domande più delle risposte. Per noi laici la Torah è una straordinaria creazione umana. Puramente umana, noi la amiamo e la interroghiamo”.
Eppure il popolo ebraico è il popolo del libro. L’analfabetismo è stato sempre assente in tutti gli strati della popolazione ebraica. Considerate che la percentuale in Italia ai primi dell’800 era del 4,3 % contro il 71% dei non Ebrei.  A tre anni i bambini venivano già iniziati alla lettura in cerca di una più tarda consapevolezza, la Torah è il fulcro del credere, esisteva ancor prima della creazione ed in essa tutto è contenuto, presente, passato e futuro; dobbiamo solo saperla leggere. La Torah ad ogni lettura rivela qualcosa di sé che era sfuggita ad una precedente lettura. Tanto che si ritiene esistano 4 diversi livelli di consapevolezza del testo in una lettura ciclica:
Pardes, la parola giardino da cui si ritiene derivi la parola Paradiso è l’acronimo dei 4 livelli di lettura della scrittura;
Peshat, lo studio letterale;
Remez, lindividuazione di nessi, dell’unità dell’insieme, collegamenti fra parole e radici uguali;
Darash, Spiegazione allegorica;
Sod, Segreto mistico, Kabbalà.
Da questo libro la nostra storia ha trovato la propria articolazione, la sua stessa natura, la sua identità.
La trasmissione, la memoria, il rapporto dialettico fra maestro e allievi, fra rabbino e discepoli ha portato anche alla costruzione di un cosmo ermeneutico che correva in equilibrio fra innovazione ed adeguamento nel rispetto e nella venerazione della Torah e della tradizione.
Così arrivarono dapprima i maestri della Mishnah, i Tannaim, poi i saggi del Talmud, gli Amorraim, poi i Savoraim, poi i Gheonim dell’ VIII secolo, poi i Rishonim medioevali, poi gli Acharonim della prima età moderna.
Intanto gli ebrei vivevano in diaspora in un mondo sempre più chiuso ed autorferenziale, un microcosmo costretto in regole che gli altri non condividevano e non comprendevano. Questo arroccarsi sulla protezione della propria identità religiosa e sociale corrispondeva all’isolamento che le istituzioni e il potere dei paesi ospitanti imponevano alle comunità ebraiche come ad esempio il ghetto o il quartiere ebraico.
Lo shtetl, il villaggio rurale ebraico tipico dei paesi dell’est europa era un autonomo insediamento che viveva ai margini di qualsiasi tessuto connettivo sociale, spesso lontano dalla cronaca e dalla storia, nella quale veniva precipitato dai pogrom zaristi o dalle rivolte popolari come quella del 1438 in Germania quando agli Ebrei vennero addossate le colpe della peste nera; in questo caso vennero date alle fiamme le sinagoghe e vennero trucidati migliaia di ebrei, compresi donne e bambini.
Tuttavia è proprio grazie alle regole di cui si nutriva la Qehillah, la comunità, che la tradizione rinsaldava i legami e dove qualcuno era sopravvissuto alle leggi antisemite, alle crociate ai pogrom, al rogo dei libri, faticosamente rinasceva la vita ebraica.
Non ultimo possiamo ricordare il caso di un gruppo di siciliani che emigrò in Belgio per lavorare nelle miniere. Costoro si presentarono in una sinagoga affermando di essere Ebrei. Ma, poiché il rabbino si rese conto che ben poco sapevano di liturgia e di tefillah, di preghiera, interpellò in Italia Rav Toaff. Il quale prese informazioni dai carabinieri di questo piccolo centro vicino a Caltagirone, che confermarono che questo gruppo di persone viveva isolato; si sposavano solo fra loro ed avevano strane usanze civili e religiose, avevano mantenuto la tradizione della circoncisione e della accensione delle candele di shabbat. Ora, questo gruppo sopravvissuto all’editto di espulsione del 1492 e alle successive leggi di conversione forzata è in Israele, a testimoniare come la coesione di una piccola comunità fosse sopravvissuta ai secoli.
Teniamo conto anche che nei secoli ci sono state le conversioni forzate, come accadde in Sicilia per i conversos o marrani. Oggi molti di questi Anussim ricercano nelle loro antiche tradizioni nascoste le proprie matrici religiose.
Così come ci sono stati anche casi di conversione ad altre confessioni.A questo proposito ricordo che la conversione è un atto gravissimo, che chiude le porte del cielo e del mondo futuro (in assenza di pentimento) e quelle della società di questo mondo (che anche se si aprono in presenza di pentimento lo fanno con grande diffidenza).
«Un israelita che pratica un 'culto estraneo' è da considerare come un idolatra per ogni cosa» (Maimonide ʽAvodà Zarà 2:4-5).
Troviamo in Geremia: «Quando qualcuno si converte è opportuno piangere: come quando il corpo si perde, si piange, quando si perde insieme corpo e anima, a maggior ragione bisogna piangere».
Ora non possiamo percorrere se non per accenni il difficile cammino degli Ebrei ma cerchiamo di capire come il fenomeno dell’assimilazione ha una origine moderna.
Il settecento riformatore, la civiltà dei lumi, aprì lo scenario per un progresso intellettuale e civile. Purtroppo l’universalismo razionalista cancella tutte le peculiarità e le specificità linguistiche culturali e di costume.
È il 1791 quando in Francia l’Assemblea si pronunciò per la libertà e la pari dignità di culto.
Più tardi l’affrancamento attraverso le leggi napoleoniche degli Ebrei ed il riconoscimento dei diritti più elementari di ogni individuo, anche per questo popolo martoriato ed escluso, consentì il formarsi di una borghesia ebraica che trovava la sua collocazione nel più ampio scenario sociale.
Non fu semplice: anche in questo caso si inserì nel dibattito politico l’eterna diffidenza che si provava per la figura dell’ebreo, per la sua diversità di cultura e di lingua, ma in Francia nel XVIII secolo si potevano vedere figure di aristocratici Ebrei che si nutrivano dello stesso umore che la civiltà dei lumi produceva.
Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi dedica due capitoli alla questione ebraica, difendendo gli Ebrei dalla diffidenza erede delle persecuzioni cristiane perpetrate ai danni degli Ebrei ritenuti deicidi.
Per un Montesquieu c’era anche un Voltaire che considerava dei fossili sopravvissuti all’evoluzione al progresso alla civiltà gli Ebrei che si nutrivano, scriveva, di superstizione e di barbara ignoranza.
Ma altri nomi come D’Holbach, Diderot, Rousseau prepararono il terreno sul quale crebbe l’Haskalah ovvero l’illuminismo Ebraico.
Ma è con Moses Mendelssohn, filosofo tedesco di religione ebraica, che l’Haskalah trova una sua codificazione filosofica in epoca illuminista, tanto che, seppur verso l'illuminismo ebbe un atteggiamento ambivalente, mostrando un'entusiastica apertura verso l'ideale della tolleranza ma anche una netta chiusura verso il laicismo o il deismo volteriano, per alcuni ancora oggi rappresenta la figura che aprì la strada ad un nuovo modo di pensare e vivere l’ebraismo, per altri segnò il primo passo che avrebbe condotto all’assimilazione e alla perdita della identità religiosa a favore di un laicismo che garantiva la convivenza con le altre istanze sociali e culturali.
Considerate che in questo secolo penetra nella filosofia tedesca il cosidetto Spinozismo, la filosofia del maledictus, attraverso Lessing ed altri pensatori come Lau che tentarono di conciliare fede e ragione, considerando la Torah un  mero codice di leggi comportamenti storicizzatosi nei millenni. L'eresia principale che portò alla scomunica di Spinoza sarebbe stata il non credere all'immortalità dell'anima ma la causa dell'inconciliabilità del suo pensiero con l'ebraismo nella sua identificazione di Dio con la natura e nel rifiuto di un Dio-persona come quello biblico. Spinoza inoltre asseriva apertamente di ritenere la Torah una fonte di insegnamenti morali, ma non della verità; egli rifiutava il concetto di libero arbitrio e applicava la propria visione deterministica anche a Dio
Christian Wilhelm Dohm (contemporaneo di Mendellsohn, nel 1781 pubblicò in due volumi “Sul miglioramento civile degli Ebrei”) in cambio  delle concessioni dei diritti civili e politici chiede in cambio agli Ebrei “di riconoscere lo stato come il suo stato, di contravvenire ai suoi più cari precetti, combattere di shabbat, rinunciare ai pregiudizi sull’alimentazione, imparare il tedesco e insegnarlo nelle scuole, non comminare scomuniche che escludessero dal circuito sociale i suoi membri, abbandonare determinate professioni per altre meno atte a corrompere il carattere. Di vestirsi e comportarsi in maniera più dignitosa, nel secolo in cui l’eleganza francese era corredo alla borghesizzazione europea, modificare le leggi sul seppellimento prematuro in barba ai progressi della medicina, insomma gli si chiederà di non essere più… Ebreo”.
Ma il pensiero di Mendelsshon si inseriva in un contesto già mutevole, dove la produzione ermeneutica e filosofica era antica di secoli, dove il rigore del quotidiano ebraico aveva lasciato il posto ad un formalismo vuoto e di maniera, non per tutti si intende, ma proprio in quella classe sociale che godeva maggiormente i benefici della crescita borghese.
Non era e non sarà più difficile vedere che i riti cristiani che coinvolgevano l’intera società tedesca tendevano a coniugarsi con le modalità di espressione ebraiche.
Mendelssohn studiò Spinoza, l’eretico, ma studiò anche i classici greci e latini fino a Newton, Montesquieu, combattendo quella che Kant aveva definito l’immaturità autoprocurata dell’uomo nei limiti dei retaggi culturali di appartenenza religiosa.
Mendelssohn era un letterato che si interessava di filosofia e di letteratura moderna in particolare tedesca, lasciando taciute le sue peculiarità ebraiche e questo ne fece uno degli intellettuali più ammirati del tempo. Pur seguendo ad esempio le regole dell'alimentazione ebraica ed essendo rispettoso dello Shabbat e delle altre regole ebraiche, la sua apertura mentale e i suoi interessi laici  orientarono le nuove generazioni ad un ingresso della ragione nel mondo ebraico permeato di tradizione e di oscurantismo. Secondo Mendelssohn si doveva uscire dalla sclerotizzazione dottrinale, dal rigore ermeneutico che assorbiva tutta la produzione dell’ingegno anche letterario. Egli propugnò questo principio “Adottate i costumi e la costituzione della terra in cui vivete, mantenendo la religione dei padri. Questo assunto per l’ebraismo ortodosso non è praticabile. Tuttavia è regola Talmudica che gli Ebrei debbano osservare le leggi dello stato che li ospita, purché non contravvengano ai principi fondamentali della Torah.
Mendelssohn sosteneva che le esteriorità come il vestiario e la lingua che differenziavano gli Ebrei dai Goym dovesse scomparire .
In altre parole anziché tessere l’elogio della diversità, che per quasi due millenni era stata in parte voluta e perlopiù imposta, Mendelssohn chiedeva al suo popolo di cancellare quelle peculiarità che impedivano una piena integrazione  nella società civile.
Io ritengo che il pensiero di Mendelssohn non rappresentasse l’innovazione ma fosse semplicemente il corollario ad una evoluzione del pensiero ebraico verso forme di progresso civile e culturale già iniziate con il fermento illuminista.
In Germania gli Ebrei si riconoscono nell’enfasi di Goethe per la libertà individuale che sembrava incoraggiare l’assimilazione. Heine discepolo di Goethe divenne metafora dell’assimilazione, ma per gli antisemiti era il simbolo della distruzione dei valori tedeschi.
La Cacania, come Musil chiamò l’impero austroungarico, fu il terreno sul quale tutte le contraddizioni del doppio sradicamento si palesarono, fu il laboratorio umano nel quale si sgretolarono tutte le radici ancestrali ebraiche da una parte e le speranze dell’appartenenza ad una identità nazionale.
I morsi dell’antisemitismo razionalista da una parte (Voltaire scrisse Juifs, che si può considerare il manifesto dell’antisemitismo moderno, scritto proprio dal padre della tolleranza) Luterano dall’altra (Lutero scrisse un violento libello dal titolo Degli Ebrei e delle loro menzogne”) ed anche cattolico, sembrava si fossero allentati creando le possibilità non tanto di un’integrazione assoluta quanto di una quiete almeno apparente.
Non possiamo non citare il pamphlet di Carlo Marx La questione ebraica, del 1848. Non è la sede per dilungarsi sulle disquisizioni marxiane di questo aberrante libello, ma è sufficiente che io vi citi questo assunto per sussumere il senso dello scritto:
“La forma più rigida del contrasto fra l’Ebreo e il Cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione!”.
In realtà le ceneri dell’antisemitismo, come sempre, nascondevano braci. Il secolo XIX sarà per gli Ebrei d’Europa il banco di prova della convivenza. Se da una parte il progresso sociale e l’appartenenza ad una borghesia più o meno illuminata favoriva il crescere della semenza ebraica nel campo delle lettere, delle arti, della musica, della scienza, dall’altra era forse ancora più greve il disagio che si provava di fronte a forme di ostracismo man mano che si cresceva nella scala sociale.
Paradigma di questa situazione fu sicuramente l’Austria felix.
L’Austria di fine secolo fu considerata dai suoi stessi cittadini un vasto impero saldo ed inamovibile dove nulla poteva mutare se non seguendo l’ordine prestabilito. In un contesto sociale di benessere sembrava di vivere nel migliore dei mondi possibili grazie all'idealismo liberale; il progresso scientifico e tecnologico sembrava relegare gli scritti sacri dell’umanità a inutili vestigia del passato.
In questo contesto sembravano impensabili gli episodi di esclusione delle componenti ebraiche dalla società colta e borghese. Tuttavia è paradigmatico che proprio in questo contesto, citiamo un caso su tanti, un musicista ebreo come Gustav Mahler fu costretto da Cosima Wagner alla conversione, per poter partecipare alla vita musicale della capitale austriaca (A proposito: la madre  di Wagner sposò in seconde nozze l'attore e poeta ebreo Ludwig Geyer, secondo alcuni già suo amante e forse vero padre di Wagner. Vi ricordo che fra i musicisti Ebrei troviamo Halevy, Meyerbeer, Mendelssohn nipote, Schoemberg, Bruch, Sinigaglia che morì durante la deportazione, Castelnuovo Tedesco, etc etc).
La componente vitale e culturale dell’Austria è ebraica.
In Italia una legge sabauda del 1848 concesse l'emancipazione, cioè i diritti civili, agli ebrei del Regno di Sardegna (poi estesa, con l'annessione, a quelli del resto della Penisola). Di qui il patriottismo che caratterizzò a lungo gli ebrei d'Italia, i quali parteciparono subito alla vita della nuova nazione, condividendo professioni e idealità, e assimilandosi totalmente al costume, pur mantenendosi fedeli alla loro religione.
Tuttavia compressi dal Marxismo da una parte dallo spinozismo dall’altra, messi di fronte a questa volontà di partecipazione alla vita e alla cultura austrotedesca, fermenta nell’intellettuale ebreo quello che un altro Lessing, questa volta Theodor Lessing (cognome mutuato proprio da quel Lessing che scrisse Nathan il Saggio) definirà Odio di sé ebraico.
La vicenda plurimillenaria di persecuzioni, sofferenze, castigo, di pena, pensate al paradigma di Giobbe-Joab, costituiscono il paradosso dell’essere amati da D-o, essere il popolo scelto ma essere anche il popolo massacrato, porta ad attribuire unicamente a sé stessi la responsabilità di questa sofferenza perpetua, dell’esilio, della discriminazione persecutoria.
Franz Kafka sarà lo scrittore che darà il quadro di un’assimilazione mai compiuta, di un'emancipazione che in realtà disancorava l’ebreo dal suo stato «naturale» opponendogli un'irriducibile avversione a qualsiasi paradigma illuminista di secolarizzazione.
Peter Gay definisce l’Odio di sé ebraico come il rovescio patologico della fiducia in sé medesimi con la quale gli Ebrei tedeschi facevano valere la loro identità tedesca. L’Ebreo Otto Weininger in Sesso e Carattere pone le basi per il razzismo biologico e l’antisemitismo filosofico.
Scrive Weininger: Come nell’altro si ama soltanto ciò che si vorrebbe essere per intero mentre non lo si è mai interamente, così nell’altro si odia soltanto ciò che si non vorrebbe mai essere e che invece in parte si è.
Vero è che più tardi Manganelli scriverà che l’odio per il diverso non corrisponde all’odio antisemita. In questo caso è la paura di sé stessi, nel riconoscere dentro noi proprio quella parte importante della nostra cultura e della nostra fede che è l’ebraismo, insomma il nostro sé ebraico.
Intanto proprio nel mondo ebraico austro-tedesco sta maturando un’altra sensibilità, quella del ritorno in Eretz Israel; già dagli anni trenta dell’ottocento prima ancora delle Istanze Sioniste di Theodor Herzl.
Giovani Ebrei scelgono la strada dell’alyà, la salita in terra di Israele e partono per la Palestina per fondare colonie agricole nello spirito del socialismo comunitario chè è certo di Fourier e Saint Simon ma è soprattutto lo spirito della Torah. Troveranno anche i prodromi del conflitto arabo ebraico che ogni giorno nutre le nostre cronache. I giovani Ebrei subiranno attacchi e devastazioni dalle bande arabe contrarie agli insediamenti pre-sionisti.
Tornando alla Vienna che ospitava duecentomila Ebrei, medici, avvocati, notai, commercianti, ricordiamo che vi era ovviamente una forte componente che sentiva l’arrivo degli Ebrei che dall’est fuggivano dai pogrom e dalle discriminazioni, come una invasione e avevano fondato un partito Pangermanista, antiasburgico anticattolico e soprattutto antisemita.
L’antisemitismo diventò poi un fenomeno di massa con l’ideologia populista di Karl Lueger.
Ed è proprio qui che maturò il seme dell’odio nazista. Non ci soffermeremo su questa storia che purtoppo tutti conosciamo, ma su un racconto scritto da Hugo Bettauer: La città senza Ebrei, in cui si prefigura una Vienna dalla quale gli Ebrei si sono allontanati e che vede fallire proprio quel modello che si fondava non sulla multiculturalità ma sul tessuto economico che gli Ebrei avevano saputo tessere. Il fallimento dell’Austria Felix, che a noi ricorda quello della cordonatura produttiva e commerciale della Sicilia dopo il 1492, poteva sembrare solo una favola ma Bettauer venne ucciso nel 1925 da un giovane nazista che rimase impunito.
Dopo il terribile massacro degli Ebrei a Kisinev nel 1903, Karl Kautsky marxista tedesco scriv:
“Per far cessare queste ostilità le minoranze recanti caratteristiche straniere  cessino di essere straniere e si mescolino col resto della popolazione”.
Il 29 aprile del 1920, parlando della questione giudaica nel parlamento austriaco Leopold Kunschack propose questa soluzione:
Richiediamo perciò che gli Ebrei, se non possono essere espulsi e non se ne vadano volontariamente, siano immediatamente internati in campi di concentramento.
Un consigliere dello Zar, procuratore al Santo Sinodo aveva espresso la risoluzione della questione ebraica “una volta per tutte con la morte di un terzo della popolazione, l’emigrazione di un altro terzo, e la conversione in massa del restante”.
Badate, non vi stupisca che riemerga dal baratro più oscuro della storia questo aberrante retaggio di violenta esclusione. Se nello stato pontificio c’era stata una parziale liberalizzazione delle leggi che vietavano le libere professioni agli Ebrei, se Pio IX aveva abolito la legge che imponeva di ascoltare 4 volte l’anno le prediche, così si esprimeva lo stesso pontefice dopo la breccia di Porta Pia:
«Or gli Ebrei, che erano figli nella casa di Dio, per la loro durezza e incredulità, divennero cani. E di questi cani ce n'ha pur troppi oggidì in Roma, e li sentiamo latrare per tutte le vie, e ci vanno molestando per tutti i luoghi. Speriamo che tornino ad essere figli».
Sostanzialmente proprio la crescita della società ebraica e la partecipazione alla vita nazionale nelle lotte risorgimentali aveva orientato il cattolicesimo ed una parte della cultura clericale a riconsiderare il popolo ebraico come un popolo pericoloso.
In Italia, nel 1895, venne anche pubblicato un romanzo di tal Cesare Algranati che si dichiarava ebreo anconetano convertito al Cattolicesimo, che con lo pseudonimo di Rocca D’Adria narrava di essere stato edotto, dal suo confessore e mentore, sui crimini perpetrati dagli Ebrei ai danni dei Cristiani; fra questi, ovviamente, l’accusa del sangue. Questo testo ancora oggi viene citato nei siti antisemiti. In questo contesto, dove dalla chiesa gli Ebrei Italiani sono visti come pericolosi liberali, l’inizio del XX secolo si presenta ancora con la tensione dialettica fra un rinnovato progresso civile e la partecipazione degli ebrei alla vita pubblica culturale e politica, alla crescita sociale e, dall’altra parte ancora le istanze più retrive e torve dell’antisemitismo.
La sola soluzione possibile della questione ebraica dunque sembra essere quella della sparizione degli Ebrei d’Europa.
Intanto si comincia anche in Italia, dopo il congresso di Basilea del 1898, a parlare di Sionismo, dell’utopistica speranza di una redenzione in terra di Israele.
Uno degli apostoli del sionismo di Herzl fu, in Italia, Leone Racah.
Se da una parte si fa sentire, a cominciare dalla comunità Triestina, più mitteleuropea, la nuova rivoluzione del ritorno in Israele, dall’altra
in questa temperie si avvertono gli aneliti ad una tranquilla normalità, ad una vita prospera e pacifica, al rapporto paritetico con i non ebrei che conducono ad istinti di assimilazione. Ne è un riflesso la letteratura ebraica italiana fino al 1936. Se la cultura ebraica mitteleuropea ha generato grandi narratori come Joseph Roth, Kafka, Singer, Agnon, Zangwill, Shalom Aleichem, alcuni di esse scrivevano in yddish, la mameluschen (lingua madre) e raccontavano la vita ebraica dall’interno di un mondo lontano ma vissuto, il mondo rurale e proletario della ostjudentum che si opponeva a quello della europa civilizzata e borghese dove gli arredi sacri si riducevano ad orpelli nelle case degli Ebrei assimilati, in Italia non si può parlare di letteratura ebraica in senso stretto, ma forse più di una letteratura a bozzetto scritta da autori ebrei. Si può porre anche la questione che cosa si intenda letteratura ebraica in diaspora. Baharier sostiene che di una mera letteratura ebraica si possa parlare più facilmente per la produzione ermeneutica e religiosa mentre per la prosa la narrativa si assista sempre a modelli mutuati da altre culture, a commistioni di genere.
Tornando al primo novecento in Italia possiamo segnalare che in tutti i romanzi e le novelle di tematica ebraica emergeva chiaramente il problema del conflitto sociale e psicologico in cui gli Ebrei erano e sono costretti a vivere. Il caso Dreyfus, il problema delle persecuzioni nell’Europa orientale, accenni a tematiche sionistiche e la questione dei matrimoni misti sono centrali in tutta la produzione letteraria. Alberto Cantoni, Enrico Castelnuovo, Guglielmo Lattes, E.D. Colonna, Gino Racah, alcuni nomi.
In un romanzo intitolato I Moncalvo, Castelnuovo immagina il contrasto delle due tendenze, l’una conservatrice l’altra progressista tesa verso l’assimilazione, all’interno di una stessa famiglia. Anche in questo caso vengono affrontate le tematiche sionistiche citando anche il caso dell’Uganda che, per un certo periodo, fu ipotesi per un'alternativa alla Palestina.
In un romanzo di Graziadio Foà dal titolo Shilock senza maschera si affronta direttamente la questione del matrimonio misto, lui Ebreo e lei Cristiana, ma la superficialità dell’ordito psicologico e la non conoscenza dell’ortodossia e della quotidianità ebraica ne fanno più un bozzetto di maniera che altro.
Anche Giuseppe Morpurgo si cimenta in Jom Hakippurim con le tensioni in seno alle comunità ebraiche affrontando ed osteggiando il matrimonio misto.
Nel 1930 esce “Remo Manun avvocato”  di Adriano Grego. Qui in modo superficiale si affronta il problema della razza e della discriminazione vissuta sempre col senso di colpa dell’essere Ebreo.
Peggio ancora fa Alfredo Segre con Agenzia Avraham Levi. Qui emerge ancora con l’odio di sé la attribuita vocazione affaristica del popolo ebraico.
La seconda guerra mondiale, le leggi razziali e le persecuzioni nazifasciste rappresentano un punto di non ritorno, esiste anche una teologia del dopo Auschwitz, ma per quello che riguarda milioni di Ebrei assimilati fu anche il banco di prova del fallimento della ricerca di pacificazione e di assimilazione. Molti ebrei che furono deportati non erano ebrei osservanti, molti non sapevano nemmeno più, dopo un paio di generazioni, di essere Ebrei. Alcuni furono prelevati in Chiesa la notte di Natale o nelle case dove luccicavano le luci dell’abete natalizio. Pensate che in Germania Ebrei che erano arruolati nell’esercito si fecero prelevare con addosso la divisa della Wermacht, venendo poi spogliati e internati come tutti gli altri. Questo valse anche per autori dichiaratamente laici che videro frantumarsi i propri sogni, le proprie vite. Vale per i Primo Levi, per le Charlotte Salomon, per gli Arnold Schoemberg, i Giorgio Bassani che dovettero fare i conti con la fine di una vita borghese e dorata, distrutta dalla tenebra, dai mostri generati dal sonno della ragione e dalla banalità del male.
Considerate che dopo il 1920 nel parlamento Italiano c’erano 19 deputati Ebrei, il sindaco di Roma Nathan fu ed è tuttora ricordato come una figura di grande rilievo. Mussolini ebbe un'amante ebrea, Margherita Sarfatti. Durante il fascismo c’erano podestà Ebrei come quello di Ferrara amico di Italo Balbo e buona parte degli Ebrei era iscritta al Partito Fascista o comunque, checché ne dica Gattegna, seguiva con simpatia il profilo socialista di Mussolini. Ne fa fede anche la parabola di Fortunato Formiggini, editore con grandi simpatie per il fascismo fino a quando Giovanni Gentile gli scippò il progetto della Grande Enciclopedia Italiana poi Treccani, e che finì suicida gettandosi dalla Ghirlandina, la torre di Modena, dopo la promulgazione delle leggi razziali. Ma sono anche i tempi di Papini, di Giuliotti, di Agostino Gemelli che scrisse una delle pagine più violentemente antisemite fra le due guerre. Egli infatti in occasione della morte per suicidio di Felice Momigliano scrisse: “Ma se insieme con il positivismo, il socialismo il libero pensiero e con Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso nostro signore non è vero che al mondo si starebbe meglio?” Aggiunse poi “… sono gli Ebrei che hanno diffuso il socialismo il comunismo la massoneria il dominio delle banche ed altre stregonerie…”.
Non è qui il caso di riprendere tutte le forme di razzismo culturale e razziale espresse fra le due guerre, ci vorrebbero giorni, ma così Giuliotti descriveva gli Ebrei: colorito olivastro, pelle untuosa, capelli e barba abbruciacchiati, membra senz’ossa.
Terminata la seconda guerra mondiale troviamo una sostanziale convergenza fra le forze di sinistra uscite vittoriose dal conflitto con la resistenza. Ebraismo, sionismo e antifascismo anche nella coniugazione comunista trovano uno stesso piano di appartenenza.
Il Partito Comunista saluta inizialmente, pur con prudenza, la nascita dello Stato di Israele. Galante Garrone, padre costituzionalista esprime la legittimità giuridica ed intenazionale della nascita del nuovo stato che, ricordiamo per gli Ebrei è un ritorno nella propria terra, nella terra che D-o ha dato al suo popolo così come è scritto nella Torah. Così come anche l’Unione Sovietica aveva appoggiato con interesse il nuovo insediamento Ebraico. Ma dopo il 67, dopo la guerra dei sei giorni, conflitto combattuto tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall'altra, e che si risolse in una rapida e totale vittoria israeliana con l’annessione di nuovi territori, l’URSS sposta il giudizio verso una condanna di Israele che improvvisamente diventa un’occupazione illegittima.
Il contesto geopolitico di questo cambiamento sarebbe lungo da analizzare, limitiamoci a riconoscere che da quel giorno il Partito Comunista Italiano, attraverso l’Unità si adegua alla nuova politica sovietica.
Sull’Unità troviamo: Il sostegno ad Israele nasce da una furibonda canea razzista antiaraba frutto di una spietata logica imperialista.
Dopo il 67 un’altra caduta nell’ambiguità identitaria accade per gli ebrei Italiani che si erano schierati a sinistra dopo la guerra.
Considerate che il proletariato ebraico fu uno dei primi che si diede un organizzazione marxista nell’impero zarista. L’Unione Operaia ebraica Russa, il Bund, fu fondata a Vilna nel 1879. Dopo Marx anche Lenin, Stalin e Gramsci per citarne alcuni, si espressero sulla Questione Ebraica.
Lenin, che aveva una nonna Ebrea, si espresse sempre e solo in favore dell’internazionalismo contro tutti i particolarismi. Secondo Lenin gli Ebrei non costituivano una nazione né una razza, questo diceva è un punto di vista scientificamente inconsistente e politicamente reazionario. Gli ebrei sono una “casta che si è perpetuata nelle condizioni del particolarismo ma una volta liberata da tutte le interdizioni giuridiche  e politiche si assimila facilmente al resto della popolazione”.
Per cui la soluzione della questione ebraica consisteva nell’assimilazione e nella perdita delle particolarità nazionali.
Stalin ribadisce che la sola origine comune e qualche residuo del loro carattere e la religione comune non sono sufficienti a farne una nazione e comunque la società capitalistica li assorbe e accelera il processo di assimilazione. Successivamente il partito riconobbe alcune caratteristiche ebraiche come Nazione senza territorio e pensò di creare una Regione autonoma degli ebrei ma al di là delle dichiarazioni di intenti di Poliakov sappiamo bene che lo stato dove si concentrarono di più gli ebrei e anche gli Ebrei anarchici dei paesi europei che avevano avuto la malaugurata idea di andare in Unione Sovietica, fu la Siberia. In ogni caso Stalin era fortemente avverso al  Sionismo perché opposto ai progetti di internazionalismo e marxismo, e alle forme di aggregazione politica ebraica. Il fatto che Trotski, Zinoviev ed altri oppositori fossero Ebrei può suggerire un’altra chiave di lettura.
Anche Gramsci si pose il problema della questione ebraica. Secondo la sua personale opinione gli Ebrei italiani erano stati sempre dentro al tessuto nazionale ed avevano una forte spinta identitaria italiana e comunque in Italia non si poteva parlare di antisemitismo in quanto i processi assimilatori erano così avanzati da intravvedere una soluzione “naturale” della questione Ebraica. La storia lo avrebbe smentito clamorosamente.
Tornando a noi, dopo il 1967 la voce di Umberto Terracini che dall’Unità condannava chi processava Israele restava una voce nel deserto.
Romano Ledda imputò alla natura ebraica di Israele il fallimento di qualsiasi trattativa, Savioli abbracciò le tesi terroristiche di Al Fatah e successivamente Berlinguer parlò di una identità nazionale rubata in riferimento ai Palestinesi, Pajetta allargò ai comunisti la ”lotta rivoluzionaria” del popolo palestinese.  Questa fu una netta inversione di tendenza che minò per sempre i rapporti fra sinistra ed Ebrei Italiani. La sinistra, cui molti ebrei avevano aderito dopo la guerra comincia a coniugare, anche e soprattutto con i nuovi movimenti extraparlamentari, un vecchio e becero antisemitismo con l’antisionismo. Gli anni 70 vedranno tutte le formazioni comuniste impegnate in una perpetua aggressione all’unico stato democratico della scacchiera mediorientale.
Fino alla legittimazione dell’attentato di Monaco sempre sull’unità del 22 settembre 1972. L’elenco è lungo: ricordo solo che fu addirittura presa d’assalto la libreria Rosa Luxemburg di Torino e poco dopo data alle fiamme. Trovarono addirittura pompelmi avvelenati in un supermercato.
E fra i tanti personaggi animati da un livore feroce vi ricordo Furio Grimaldi, il quale spediva ai suoi compagni le bandiere Israeliane per essere incendiate durante le manifestazioni.
Gli atti violenti e le aggressioni verbali e non, non si contano più. Gli Ebrei tornano ad essere il popolo del complotto plutocratico del capitalismo internazionale, invischiati in relazioni sempre più fantasiose con massoneria, illuminati e quant’altro. Ai tempi della segreteria di Craxi anche il partito socialista si spostò verso posizioni filo arabe e filo palestinesi. Ma credo che ricordiamo tutti D’Alema a braccetto con terroristi di Hamas a Gaza. Non voglio entrare in questioni di merito, non è la sede né il momento per farlo, mi limito a segnalare che in Italia le intimidazioni perpetrate dalla sinistra verso gli Ebrei ed Israele non si contano. Bare portate davanti alla sinagoga; mascherate da feddayyn da persone di Rifondazione Comunista nel ghetto; boicottaggi del festival del libro; ritorsioni contro Israele da organismi come le COOP alimentari; hanno impedito a docenti israeliani di parlare all’Università di Firenze; Venezia un gruppo di docenti ha impedito collaborazioni culturali con le università Israeliane; aggressioni di ex partigiani ebrei per la commemorazione della liberazione (ricordate che sulla linea gotica, sul Senio combattè la brigata ebraica) etc etc. Ma quello che più è avvilente è che l’antisemitismo-antisionismo consente a destre estreme e sinistre di cooperare uniti contro il nemico. Ci sono stati addirittura campi antimperialisti cui hanno partecipato frange di estrema sinistra e Forza Nuova. Personalmente trovo improponibile che il giorno della memoria certi personaggi si presentino a lacrimare pubblicamente per poi chiedere agli Ebrei italiani di prendere le distanze da Israele. Comunque la si voglia vedere questa situazione ha reso ancora più complessa la condizione degli ebrei, non solo in Italia ma nell’intera Europa. La virulenta recrudescenza dell’antisemitismo, il proliferare di organismi e siti antisemiti su internet si coniuga alle istanze arabe che sul territorio europeo trovano fertile terreno di crescita. Non molto tempo fa un deputato ebreo olandese ha invitato i propri correligionari a lasciare l’Olanda dove non era più possibile garantire l’incolumità dei cittadini Ebrei; in Svezia non è stato possibile giocare un incontro di Coppa Davis per una sommossa nelle periferie arabe. Pensate all’attentato che ha lasciato sei morti nella comunità di Lione.
Purtoppo anche all’interno della stessa comunità ebraica italiana si sono determinate fratture fra quei pochi che esprimono posizioni filopalestinesi come Giorgio Gomel, Moni Ovadia (supportati da personaggi come Dario Fo, Vattimo, Chiesa e bella compagnia) ovviamente non osservanti, non religiosi, e chi d’altra parte vede in Israele la sola via possibile di uscita da un Europa filoislamica che dà da mangiare al coccodrillo sperando di essere divorata per ultima.
Dall’Italia ci sono state due grandi emigrazioni verso Israele: la prima dopo le leggi razziali del 38, la seconda dopo il 67 quando le condizioni della politica e la strategia dei media avevano creato un ulteriore senso di insicurezza in Italia. Oggi si considerano almeno duecento persone l’anno che lasciano l’Italia per Israele, flusso forse dovuto anche alla crisi che mina la solidità sociale e finanziaria. In ogni caso la comunità italkit in Israele ammonta a circa 15000 persone a fronte delle 35000 circa in Italia.
Già dal 1961 la stampa ebraica pone un accento di allarme sulla emorragia assimilatoria che dimezzava il numero degli Ebrei iscritti alle Comunità Italiane. Secondo gli ultimi sondaggi, rivolti in particolare ai giovani, di Pagine ebraiche, la popolazione Ebraica presenta un quadro frammentario ed inquietante. Molti degli iscritti ammettono di non partecipare alla vita comunitaria, di essere favorevoli ai matrimoni misti, di non seguire le regole della Kasherut ma soprattutto di vivere una deriva ateista o non religiosa. Nonostante questo sentono in sé una forte appartenenza al popolo ebraico nel quale si riconoscono. Molti di loro nutrono simpatia e solidarietà per Israele nonostante una frangia critica verso le destre israeliane. In questo ritratto a tinte fosche si riconoscono le stesse problematiche che avevamo trovato nello sradicato Kafka e anche nel padre della psicoanalisi Freud che scriveva:
Ciò che mi legava all’ebraismo non era la fede e nemmeno l’orgoglio nazionale. Sono sempre stato un incredulo educato senza religione… Ma rimanevano altre cose che rendevano irresistibile l’attrazione all’ebraismo e agli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto più difficile era tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza della interiore identità...
Dalle forze politiche e dalla intellighenzia sinistrorsa d’altronde si chiede questo agli ebrei, di mantenere un profilo legato ad una identità antifascista e alla persecuzione, finendo poi per cadere nella più violenta delle equazioni: Israele  = Nazismo.
Poco importa delle tensioni e delle pulsioni della fede e della identità religiosa ebraica. Nessuno sa o vuole sapere che la Torah propone un modello di giustizia sociale di tipo Socialista Comunitario. Con questa gente, con le coniugate forze dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, con l’ignoranza spaventosa, con i pregiudizi antisemiti con i quali si nutrono queste forze, comprese le oltranziste lefebvriane, compresi i negazionisti che albergano in tutte le frange nominate, non ultimi l’ateista Oddifreddi e il filosofo, si fa per dire, Vattimo, non ci può essere né dialogo né residue speranze che la persecuzione antiebraica possa cessare. Oggi che questo ideologismo perverso, nutrito di superstizione e di ignoranza, trova nuovo vigore e si coniuga con il nazismo islamico,la possibilità di un futuro di pace per gli Ebrei non è in alcun orizzonte.
Segnalo una voce, dimenticata, quella di Sartre che nel 1944 scrive:
“Non c’è tanta differenza tra l’antisemita e il democratico. Il primo vuole distruggerlo come uomo per non lasciare sussistere in lui altro che l’Ebreo, il paria, l’intoccabile; il secondo vuole distruggerlo come Ebreo per conservare in lui solo l’uomo, il soggetto astratto universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’antisemita accusa l’Ebreo di essere Ebreo, il democratico lo accuserebbe volentieri di considerarsi Ebreo”.
Concludendo possiamo dire che i rischi della scomparsa del popolo ebraico oggi sono forti.
Da un paio di secoli il popolo ebraico è colpito da un processo di sfaldamento e di dissoluzione interna che è dovuto alla distruzione del tessuto connettivo religioso, la legge della Torah.
Milioni di Ebrei si dichiarano tali per storie personali, per appartenenza a saghe familiari ma hanno una vita priva di contenuti ebraici dal punto di vista delle regole fondamentali. Regole dell’alimentazione, regole sulla purità familiare e osservanza dello Shabbat.
Anche sul piano delle politiche mediorientali non c’è da consolarsi. Anche qualora si evitasse una guerra e si trovasse una conciliazione, la natura democratica di Israele sancisce la sua propria fine. L’accrescimento demografico è talmente sfavorevole agli Ebrei e favorevole agli Arabi che fra qualche generazione gli Ebrei saranno in minoranza nel paese.

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