PARASHAH SHEMOTH: Shemoth 1,1 - 6,1
HAFTARAH: Yrmiyah 1,1 - 2,3
Shalom a tutti.
Con Shemoth ci introduciamo
nel secondo libro della Torah, tradotto in Italiano Esodo. Comincia una nuova
era per il popolo Ebraico, quella dei patriarchi lascia il posto a quella che
vede un popolo intero di discendenti della grande stirpe di Abraham, che si
determina in una fuga dalla prigionia verso la più grande delle conquiste,
quella della libertà. Un popolo che attraverso il suo profeta Moshè Rabbenu incontra D-o, un D-o che si
manifesta, che interviene nella storia, che guida spiritualmente e fisicamente
la marcia attraverso anni di peripezie che sono anche una metafora del nostro cammino verso l’autodeterminazione.
Diciamo che ogni giorno
dobbiamo conquistarci la libertà, affrancarci dal giogo della prigionia, anche
quella che imponiamo a noi stessi. L’Egitto è la metafora di tutte le forme di
condizionamento, di autolimitazione, che quotidianamente dobbiamo affrontare.
Ma c’è un’altra riflessione
da fare. La Torah
ci racconta di un popolo che dopo avversi avvicendamenti della storia conosce i
gioghi della schiavitù, dopo essere stato, grazie all’autorità di Giuseppe, una
nazione che aveva goduto di privilegi pur vivendo in una terra non propria. Dopo
la caduta della dinastia Hiksos, circa 1600 avanti l'era volgare, un altro re, un
altro faraone succede a coloro che avevano protetto gli Ebrei e comincia un
periodo buio della nostra storia. Buio come altri che gli succederanno,
l’esilio di Babilonia, la diaspora dopo la caduta del secondo tempio.
Dante Lattes scrive che possiamo
cominciare a parlare di antisemitismo.
Gli Ebrei in Egitto avevano
goduto di privilegi, appartenevano ad una classe sociale mediamente
elevata. Mentre gli Hiksos erano una
dinastia straniera di tribù beduine e potevano accettare di buon grado la presenza
di una popolazione eterogenea, con la nuova dinastia autoctona si ripropone una
gestione del potere di stampo nazionalistico che vede nella vita ebraica una forma di usurpazione di un diritto
della terra e un pericolo per possibili alleanze politiche e militari con forze
straniere. Così progressivamente si arrivò ad una limitazione delle libertà
fino alla schiavitù.
Non è difficile riconoscere
in questo percorso il paradigma delle altre sofferenze ebraiche, in modo
particolare nella diaspora. Quando l’assimilazione portava alla crescita
sociale e alla partecipazione attiva alla gestione della ricchezza e della cosa
pubblica, gli Ebrei venivano e vengono accusati di essere un cancro all’interno
di un sistema. È la percezione razzista della diversità.
Così è stato nella Spagna dei
Re Cattolici, così nella Germania e nella Felix Austria trascinata nella
vergogna della storia dal Nazismo.
Chiusi in coagulati umani a difendere la nostra identità, quello
che è stato ritenuto segno di ostilità era ed è ancora semplicemente la volontà
di sopravvivere a noi stessi con l’integrità della tradizione, con la nostra
fede, le nostre costumanze proprio per evitare pulsioni di assimilazione,
progressivi assorbimenti. Perché il giudizio divino sulla promiscuità è quello di ʽavodah tzara,
di idolatria, di avvicinarsi a costumi e credenze non conformi alla
nostra. Noi abbiamo sempre tessuto l’elogio della diversità. Non ci interessa
la condivisione in materia sociale né tantomeno religiosa, quando questa
comporta la perdita del nostro essere soggetti dell’ebraismo.
Se siamo ancora qui, unico
popolo sopravvissuto ai millenni, lo dobbiamo proprio a questi meccanismi di
difesa. Questo non vuole dire autoescludersi dalla società civile, né accettare
quello stato che un pessimo vocabolo indica come tolleranza. Tollerare è una
forma di sopportazione: permettere
benevolmente qualcosa di negativo dall’alto di una presunta superiorità che consentirebbe di impedirlo.
Abbiamo sempre chiesto di
essere diversi con pari diritti poiché nostra regola è Dina de malkhutà dinà. La legge del regno, dello stato è legge. Noi non dobbiamo imporre le
nostre regole a nessuno né intendiamo condizionare altri comportamenti in
nostra funzione. Anzi, la legge dello stato nel quale viviamo, che ci ospita è
la legge alla quale noi sottostiamo, fermo restando che debbono essere
garantiti i principi basilari della Torah. I nostri tribunali, pur operando nel nostro ambito sottostanno alla legge dello stato, non
intendono sostituirsi ad essa.
Ma cerchiamo di notare una
differenza. Mentre la bimillenaria persecuzione cristiana degli Ebrei fondava la
sua feroce canea su questioni religiose (gli assassini di Cristo, del
protomartire Stefano etc) nella
discriminazione operata dagli Egizi la questione religiosa è assente. Lo stesso
è valso per la Germania
nazista. Al di là della mistica religiosa nazista, dalla lancia di Longino al
Graal e a tutte queste tumefatte reliquie, la Germania nutriva il suo
odio di rivalse sociali con argomentazioni del tipo gli Ebrei sono ricchi,
cospirano politicamente, affamano il popolo tedesco, sono il nemico interno
della grande Germania.
Negli anni 50 fu fatta
un’indagine a tappeto sul razzismo e l’antisemitismo in America. Le risposte
variavano da: il denaro è il loro Dio, controllano la finanza e gli affari,
sono astuti ed abili, sono intelligenti, sono poco socievoli, cospirano contro
gli stati che li ospitano, vogliono il potere del mondo etc etc.
Come vedete sono
completamente assenti pregiudizi e rivalità di carattere religioso.
Questi stereotipi sono gli
stessi che troviamo nell’Italia fascista ma sono gli stessi che il razzismo
europeo scarica su Israele, dunque l’equazione antisionismo = antisemitismo è
assolutamente pertinente.
Individuare nei contesti le
radici esplicite dell’antisemitismo è difficile.
La psicoanalisi ci può, se
non aiutare, almeno dare alcuni spunti di riflessione. Sempre negli Stati
Uniti, hanno recentemente fatto una ricerca molto approfondita sull’omofobia.
Ora, è risultato che l’aggressività maggiore era propria di persone che avevano avuto turbe legate alla propria ambiguità
sessuale, in altre parole avevano paura di qualcosa che era dentro loro
stessi.
Vi cito lo scritto di
Manganelli che già avevamo pubblicato sul blog recentemente:
“Noi sappiamo
che si ha paura di ciò che sta dentro di
noi, non di ciò che ci è estraneo. Se l’Occidente ha combattuto gli ebrei,
superando in questa lotta ogni abiezione di cui mai è stato capace, ciò viene
solo dal fatto che l’Occidente ha paura della propria interiore domanda
ebraica, quella continua, eterna, mite, irriducibile domanda che lo
insegue, che lo costringe a far ciò che non vuol fare, capire se stesso, oltre
quei limiti che la sua cultura, la sua ansia di protezione, la sua paura di
esistere gli impongono.
l’occidentale
ha il terrore dell’altrove, odia l’altrove e tuttavia sa nelle sue viscere
geroglifiche che solo l’altrove custodisce il suo significato (…) come se gli ebrei guardassero da un’altra parte, verso cose che non osiamo
guardare”.
Scrive Allport in La natura del pregiudizio:
“L’antisemitismo è sostenuto
dal pensiero teologico cristiano, poiché la Torah asserisce che gli Ebrei sono il popolo
eletto da D-o essi devono essere perseguitati fino a quando non riconosceranno
il Messia”.
A questo punto la spiegazione
teologica invita ad un’analisi psicologica più sottile. I cristiani stessi
desidererebbero fuggire alla rigida etica evangelica (che ovviamente non
riguarda scritturalmente gli Ebrei) e secondo le teorie psicanalitiche questo
impulso può generare disprezzo e ostilità nei propri stessi riguardi. Dunque si
odia l’Ebreo che è in sé. Odiando l’Ebreo trasferisco su lui la mia colpa.
Proprio come si faceva col capro espiatorio.
Freud estendeva questo
ragionamento accennando al desiderio represso di uccidere il padre (comune a
molte culture, pensate a quella greca e al mito di Edipo) e quindi per
estensione anche D-o, il grande padre. Ora, se dal punto di vista cristiano gli
Ebrei sono gli uccisori di Cristo, sono anche uccisori di D-o. Non potendo
riconoscere ed ammettere in sé stessi questo impulso, si trasferisce
sull’Ebreo, già colpevole di deicidio.
Ripeto, forse sono solo
suggestioni, la realtà, anche quella contemporanea è più drammatica e meno
cerebrale. Il male è in agguato e se all’epoca di Moshè Rabbenu la meta era
Eretz Israel beh… sappiate che lo è anche oggi.
Tornando alla nostra parashah
Shemoth, dunque possiamo leggere la schiavitù in Egitto non solo come la
schiavitù spirituale con tutti i rischi che comporta di dissoluzione della
nostra identità (vi rimando al testo della conferenza sull’assimilazione) ma
anche il paradigma di tutti gli antisemitismi di due millenni della Diaspora.
Shabbath shalom
Israel Eliahu
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