giovedì 5 dicembre 2013

SHABBATH 4 TEVET 5774 / 6-7 DICEMBRE 2013 - V A Y G G A S H



Peter von Cornelius: Ricongiungimento di Giuseppe coi fratelli

ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore 16.23
Havdalah          17.25
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PARASHAH VAYGGASH: Bereshith 44,18 - 47,27
HAFTARAH: Yechezqiel 37,15-28 


Shalom a tutti.
La parashah di questa settimana, vayggash, ci rende un insegnamento che non è evidente, anzi la situazione di Giuseppe e dei fratelli è così articolata che sfuggono le motivazione di tanta alternanza di sorti e decisioni. Certo le richieste di Giuseppe appaiono perlomeno bizzarre: perché trattenere Simeone per vedere il giovane Beniamimo? Dal punto di vista dei fratelli che senso aveva una richiesta in tal senso fatta dall’alto dignitario di Faraone? Perché interessarsi del vecchio padre di questi che cercavano solo di acquistare risorse e cibo? Perché ricorrere  agli inganni della coppa e del denaro restituito? Ma soprattutto, perché è lo stesso Giuseppe a chiedere perdono, lo stesso Giuseppe il cui risentimento era più che legittimo?!

Cercheremo di capire gli insegnamenti nascosti fra le righe della storia narrata.

Noi sappiamo che il perdono per una colpa commessa verso il prossimo deve maturare dentro sé stessi con un processo motivato, con la ricerca della propria responsabilità e non come autoassoluzione. Ottenere un perdono verbalmente quando dentro sé stessi non c’è la completa coscienza della colpa e del danno commisurato non serve, non è riconosciuta, è inutile. Non solo ma il perdono deve essere chiesto personalmente alla persona danneggiata, non ci possono essere mediazioni, nemmeno quella divina. Tant’è che la mishnah ci dice che nemmeno il giorno di Kippur porta perdono per i peccati commessi verso il prossimo se non si è fatto il possibile per ottenerlo; compresa la richiesta pubblica davanti ad altri ebrei o con la formula di teshuvah pubblica.

Scrive Maimonide: Chi confessa le proprie colpe solo a parole senza il fermo proponimento di abbandonare il peccato è simile a chi compie tevilah con un verme in mano (Hilchot haTeshuvah).
E ancora: le colpe commesse ai danni del prossimo, come ad esempio l’aver danneggiato un compagno, averlo maledetto, derubato non verranno mai espiate se non dopo averlo risarcito per il danno arrecatogli ed avere placato la sua ira e ottenuto il suo perdono. Anche se avesse offeso il compagno solo a parole deve lo stesso placare  e fare appello ai suoi sentimenti fino ad ottenere il suo perdono(Hilchot haTeshuvah).

La Teshuvah consiste nell’abbandonare il peccato, con il proposito di non commetterlo più.

Dunque non stava certo a Giuseppe la richiesta di perdono ai suoi fratelli; tuttavia sappiamo che i fratelli non lo avevano riconosciuto, dunque come potevano chiedere direttamente a lui il perdono?

Il fatto è che Giuseppe non svela la sua identità perché non poteva essere certo che in quegli anni i fratelli avessero portato a compimento un processo di Teshuvah, così decide di imporre loro, attraverso un percorso progressivo e metaforico, doloroso, nutrito di timore e di spavento, i passi per una presa di coscienza, della elaborazione della conquista del pentimento e della susseguente richiesta di perdono; non solo per il male compiuto nei confronti dello stesso Giuseppe ma anche del padre Jaʽakov, lasciato per tanti anni senza nemmeno una sepoltura su cui piangere il figlio creduto morto.

Dunque con questi artifici, con questi pungoli, Giuseppe impone ai fratelli il percorso di Teshuvah che, ricordiamo, è anche metafora del viaggio, del ritorno.
In effetti già nella parashah Miqqetz avevamo visto come i fratelli comincino a considerare gli eventi quale conseguenza dovuta al loro comportamento. Quando Giuseppe chiede di poter vedere il loro fratello minore e dunque di condurlo in Egitto “... si dicevano fra loro: - Noi siamo colpevoli verso il nostro fratello ché vedemmo quanto fosse angosciato l’animo suo e non lo ascoltammo; perciò ci accade questa disavventura. Ruben replicò – Non ve lo dicevo io, non commettete peccato verso il ragazzo. Non mi deste ascolto ed ora ci viene chiesto conto del suo sangue. Dunque presa di coscienza del torto commesso. Giuseppe, anche se non direttamente, mette alla prova i fratelli. Non deve succedere la ripetizione del peccato. Anche se formale, la cosa ha comunque un valore normativo. Non è poi così scontato. Ricordate che secondo alcuni maestri, se il peccatore persiste nel suo crimine con ostinazione, nonostante le possibilità di perdono offerte e nonostante manifeste intenzioni di ravvedimento, sarà il Signore stesso che gli impedirà di fare Teshuvah. Vedremo come il Signore indurirà il cuore di Faraone. Non gli darà la possibilità di pentirsi ancora. Il suo pentimento non verrà dal suo intimo, dalla sua coscienza ma dall’opportunità di evitare altre piaghe. Ricorrere nello stesso errore dopo aver fatto Teshuvah non offre possibilità assolutorie ad libitum. Anche per questo motivo il percorso dei fratelli di Giuseppe è così tortuoso, così ostico. L’alternanza delle sorti, le paure che si susseguono alle positive risoluzioni sono anche una difficile prova psicologica. Ma dall’esito del succedersi degli eventi Giuseppe comprende che i fratelli hanno maturato il momento del perdono, le parole per esprimere una richiesta sono superflue.
“Disse ai fratelli: Io sono Giuseppe, mio padre è sempre vivo? I fratelli non poterono rispondergli perché erano rimasti storditi davanti a lui (…) Però non addoloratevi, non vi dispiaccia di avermi venduto qui, perché D-o mi ha mandato avanti a voi perché rimaneste in vita (…) Non voi mi avete mandato qui, ma D-o”.

Può esserci un perdono più sentito di questo?

Shabbath shalom

Israel Eliahu

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