Peter von Cornelius: Ricongiungimento di Giuseppe coi fratelli
ORARI DI SIRACUSA
Accensione ore 16.23
Havdalah 17.25
Per le altre località clicca Q U IPARASHAH VAYGGASH: Bereshith 44,18 - 47,27
HAFTARAH: Yechezqiel 37,15-28
Shalom a tutti.
La parashah di questa settimana, vayggash, ci rende un
insegnamento che non è evidente, anzi la situazione di Giuseppe e dei fratelli
è così articolata che sfuggono le motivazione di tanta alternanza di sorti e
decisioni. Certo le richieste di Giuseppe appaiono perlomeno bizzarre: perché
trattenere Simeone per vedere il giovane Beniamimo? Dal punto di vista dei
fratelli che senso aveva una richiesta in tal senso fatta dall’alto dignitario
di Faraone? Perché interessarsi del vecchio padre di questi che cercavano solo
di acquistare risorse e cibo? Perché ricorrere agli inganni della coppa e del denaro
restituito? Ma soprattutto, perché è lo stesso Giuseppe a chiedere perdono, lo
stesso Giuseppe il cui risentimento era più che legittimo?!
Cercheremo di capire gli insegnamenti nascosti fra le righe
della storia narrata.
Noi sappiamo che il perdono per una colpa commessa verso il
prossimo deve maturare dentro sé stessi con un processo motivato, con la
ricerca della propria responsabilità e non come autoassoluzione. Ottenere un
perdono verbalmente quando dentro sé stessi non c’è la completa coscienza della
colpa e del danno commisurato non serve, non è riconosciuta, è inutile. Non
solo ma il perdono deve essere chiesto personalmente alla persona danneggiata,
non ci possono essere mediazioni, nemmeno quella divina. Tant’è che la mishnah
ci dice che nemmeno il giorno di Kippur porta perdono per i peccati commessi
verso il prossimo se non si è fatto il possibile per ottenerlo; compresa la
richiesta pubblica davanti ad altri ebrei o con la formula di teshuvah pubblica.
Scrive Maimonide: Chi
confessa le proprie colpe solo a parole senza il fermo proponimento di
abbandonare il peccato è simile a chi compie tevilah con un verme in mano (Hilchot haTeshuvah).
E ancora: “le colpe commesse ai danni del prossimo, come ad
esempio l’aver danneggiato un compagno, averlo maledetto, derubato non verranno
mai espiate se non dopo averlo risarcito per il danno arrecatogli ed avere
placato la sua ira e ottenuto il suo perdono. Anche se avesse offeso il compagno solo a parole deve lo
stesso placare e fare appello ai suoi
sentimenti fino ad ottenere il suo perdono” (Hilchot haTeshuvah).
La Teshuvah consiste nell’abbandonare il peccato, con il proposito di non commetterlo più.
Dunque non stava certo a Giuseppe la richiesta di perdono ai
suoi fratelli; tuttavia sappiamo che i fratelli non lo avevano riconosciuto,
dunque come potevano chiedere direttamente a lui il perdono?
Il fatto è che Giuseppe non svela la sua identità perché non
poteva essere certo che in quegli anni i fratelli avessero portato a compimento
un processo di Teshuvah, così decide di imporre loro, attraverso un percorso
progressivo e metaforico, doloroso, nutrito di timore e di spavento, i passi
per una presa di coscienza, della elaborazione della conquista del pentimento e
della susseguente richiesta di perdono; non solo per il male compiuto nei
confronti dello stesso Giuseppe ma anche del padre Jaʽakov, lasciato per tanti
anni senza nemmeno una sepoltura su cui piangere il figlio creduto morto.
Dunque con questi artifici, con questi pungoli, Giuseppe
impone ai fratelli il percorso di Teshuvah che, ricordiamo, è anche metafora del
viaggio, del ritorno.
In effetti già nella parashah Miqqetz avevamo visto come i fratelli
comincino a considerare gli eventi quale conseguenza dovuta al loro
comportamento. Quando Giuseppe chiede di poter vedere il loro fratello minore e
dunque di condurlo in Egitto “... si dicevano fra loro: - Noi siamo colpevoli
verso il nostro fratello ché vedemmo quanto fosse angosciato l’animo suo e non
lo ascoltammo; perciò ci accade questa disavventura. Ruben replicò – Non ve lo
dicevo io, non commettete peccato verso il ragazzo. Non mi deste ascolto ed ora ci viene chiesto
conto del suo sangue”. Dunque presa di coscienza del torto commesso. Giuseppe,
anche se non direttamente, mette alla prova i fratelli. Non deve succedere la ripetizione del peccato.
Anche se formale, la cosa ha comunque un valore normativo. Non è poi così
scontato. Ricordate che secondo alcuni maestri, se il peccatore persiste nel
suo crimine con ostinazione, nonostante le possibilità di perdono offerte e
nonostante manifeste intenzioni di ravvedimento, sarà il Signore stesso che gli
impedirà di fare Teshuvah. Vedremo come il Signore indurirà il cuore di Faraone.
Non gli darà la possibilità di pentirsi ancora. Il suo pentimento non verrà dal
suo intimo, dalla sua coscienza ma dall’opportunità di evitare altre piaghe.
Ricorrere nello stesso errore dopo aver fatto Teshuvah non offre
possibilità assolutorie ad libitum. Anche per questo motivo il
percorso dei fratelli di Giuseppe è così tortuoso, così ostico. L’alternanza
delle sorti, le paure che si susseguono alle positive risoluzioni sono anche
una difficile prova psicologica. Ma dall’esito del succedersi degli eventi
Giuseppe comprende che i fratelli hanno maturato il momento del perdono, le
parole per esprimere una richiesta sono superflue.
“Disse ai fratelli: Io sono Giuseppe, mio padre è sempre
vivo? I fratelli non poterono rispondergli perché erano rimasti storditi
davanti a lui (…) Però non addoloratevi, non vi dispiaccia di avermi venduto
qui, perché D-o mi ha mandato avanti a voi perché rimaneste in vita (…) Non
voi mi avete mandato qui, ma D-o”.
Può esserci un perdono più sentito di questo?
Shabbath shalom
Israel Eliahu
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