domenica 19 gennaio 2014

LA CANZONE DEL GHILGUL di I. E. D. Sutter

 
Alois Heinrich Priechenfried: Uno studioso

Menachem Sacerdoti abitava una casa modesta, di tufo, ingabbiata fra altre simili, cresciute come gramigna con le radici aggrappate alla terra. Un abituro insano, ammuffito, con una sola finestra che cercava disperatamente una luce, negata da altre case allineate di fronte, al lato opposto del vico.
Da alcuni anni quello squarcio nel muro era divenuto il suo pozzo sul creato, ma anche il buco dal quale il mondo lo guardava.
La notte Menachem contemplava il firmamento e rifletteva con amarezza su un destino che lo aveva carcerato, avvinghiandolo in un abbraccio, ad una sedia di legno. Di notte il cielo stellato confortava lui, straniero in questo mondo, sopravvissuto alla cancrena della storia per scrivere all’umile lucore di un lume.
Era tornato sì, ma lacerato dal male di non riuscire a narrare quello che aveva visto e che lo aveva trafitto.
Una terra alla deriva lo aveva ingoiato ancor giovane e lo aveva rigurgitato informe nell’anima e deforme nel corpo.
- Urlerò quello che è avvenuto, che tutte le genti del mondo conoscano lo spavento delle tenebre del nostro naufragio. Questi campi che ancora bruciano testimonieranno in eterno la ferocia di chi ha perduto il Padre per sempre. -
Quel grido però era rimasto in gola, ricacciato, dall’immensità dell’orrore, nella profondità delle viscere. Altri dolorosi fratelli avevano mostrato le piaghe, le cifre sulla pelle, ma l’anima ulcerata di Menachem era muta per sempre.
Sembrava che la voce fosse diventata sterile, che il mostro che si nutriva di lui lo avesse dilaniato dal cuore alla gola.
Come se quel viaggio non potesse finire mai, vedeva la sua vita scorrere guardando dal finestrino di un treno condotto verso un binario morto.
Per questo viveva della sua solitudine, nutrito dalla notte e dai libri, nascosto in una qualunque casa di una triste, grande città.  
Le grida dagli androni, l’eco dei cortili, i profili degli uomini contro le luci delle stanze anonime dei caseggiati erano le ombre appannate della vita degli altri, e intrecciata a questi fotogrammi scorreva anche la sgranata pellicola dei suoi ricordi senza voce, i volti dei fratelli perduti, il loro silenzioso dolore, gli occhi disseccati, le lingue bruciate dalla sete, e quell’odore di morte che era entrato nella sua pelle per ricordargli per sempre l’infamia.
Forse per salvarlo il Santo Benedetto gli aveva strappato la voce, dopo che gli uomini gli avevano lacerato l’anima.
Menachem sapeva che Idd-o aveva creato il bene e il male e aveva donato all’uomo il libero arbitrio: per questo, anche sommerso da tanto orrore, non aveva mai perduto la fede, non si era mai chiesto perché il Padre fosse assente, ma lo tormentava il non comprendere perché avessero taciuto gli altri uomini e le genti lontane.
Giù nella strada ancora camminavano, ridevano, vivevano quelli che lo avevano visto partire e avevano chiuso gli occhi; quelli che lo avevano denunciato e avevano sputato sul carro che lo trascinava via e, quando era tornato, con la morte sulle spalle come un tabarro, con l’anima appesa allo scheletro, avevano girato gli occhi altrove, senza vergogna, ma col disprezzo della indifferenza.
Aveva trovato la porta aperta, le poche cose di valore erano state rubate; una sedia, un tavolo e i suoi libri, questo era rimasto a consolare lui e quelli che avevano dormito nella sua casa durante la sua assenza.
Era quanto gli bastava per resistere, per agganciarsi al succedersi dei giorni; nessuno di quelli che partirono con lui era tornato dal viaggio. Scomparsi, dissolti come se fossero stati riassorbiti dalla terra, come pioggia nei fiumi. Ma non riusciva a testimoniare la memoria, avvolto nel lutto come un insetto nel bozzolo.
Il mondo era in fermento, la città pareva un termitaio da ricostruire, la gente si affannava per dimenticare, ma vivevano tutti in una ferita infetta, gonfia di sanie, che avvelenava i continenti.
Quelli come Menachem, strisciavano lungo i muri come ratti, spaventati dal tintinnare della nuova vita. Avevano occhi grandi ma spenti, fuggivano la luce, vivevano nascosti come figli di tenebra.
Pensava che la sua esistenza si sarebbe consumata in quella stanza che odorava di sego e di muffa, fino alla fine dei giorni; niente avrebbe potuto instillare nel suo sangue un umore vitale, nessuno avrebbe potuto insufflare un alito nuovo nel suo spirito malfermo, nel suo corpo macilento.
 
“Così come è venuto se ne andrà, a che serve faticare per il vento? (Qoheleth 5,15).
 
Una notte d’estate, Menachem era assopito sui suoi vecchi libri, quando dalla finestra entrò un vento caldo e profumato; odorava di fiori, d’acqua marina, di oasi di sabbie iridescenti, forse portava quelle nuvole chiare che si addossavano ad oriente.
Si avvicinò alla finestra e guardò verso quell’ammasso chiaro nel buio. Ecco là, la terra dei padri, il rosso dei deserti, il turchese del Giordano, e una dolcezza struggente lo penetrò fino a stordirlo. Gli parve di vedere Gerusalemme di luce, il sacro monte degli Ebrei, le tombe dei patriarchi e quella stagione nuova, che cominciava allora a germogliare, per il suo popolo.

Il mattino lo trovò così, abbandonato ad un sogno. Decise allora di partire, avrebbe viaggiato verso Eretz Israel, sarebbe ritornato finalmente alla terra degli Ebrei, anche solo per esservi sepolto, questo era scritto nel suo destino, ora finalmente lo comprendeva.
Si guardò attorno. Che cosa avrebbe lasciato in questa città, in questa casa, nulla, né memoria né affetti. Raccolse così la sua vecchia Torah, il Tallit e i Tefillin. Nient’altro gli sarebbe servito per il viaggio; il Santo, Benedetto Egli sia, avrebbe provveduto a lui indicandogli la strada, come era accaduto col vento della notte, come nel deserto aveva nutrito il suo popolo. Menachem cominciò a scendere le scale, le gambe quasi non lo sorreggevano, ogni gradino pareva una voragine. Arrivato faticosamente al portoncino si trovò sul vico. Nessuno lo riconosceva, né prestava attenzione al suo camminare appoggiandosi ai muri. Guardò in fondo alla strada e non ne vide la fine. Come un budello si dipanava fra botteghe di ciabattini e vestiti americani, venditori di pane e sigarette. Un passo alla volta si disse Menachem e sorrise. Poi si immerse in quell’universo sonoro, di musica e di vita. Via, fino alla fine del giorno.

In quello stesso momento la padrona della casa saliva le scale con due giovani; aspettavano un bambino e si guardavano l’un l’altro con dolcezza. 

- Ecco le stanze. Ci sono ancora alcune cose di quell’Ebreo, alcuni libri, qualche vestito, ma si butta tutto. Se vi serve il tavolo potete tenerlo. -
- Se ne è andato? – chiese la giovane -
 
- Lo portarono via i Fascisti, insieme agli altri, in Germania. Lo denunciarono quelli della finestra di fronte, vede. Da allora non si è saputo più nulla. Non è più tornato. La casa da allora è vuota. -

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