Le nebbie
scendevano ai primi di Ottobre per non lasciarci più fino a primavera.
Uno
straccio umido e grigio scendeva sui nostri giorni, sempre più corti, finché la
luce quasi scompariva lasciando anche le nostre parole al buio. Questa nebbia
entrava nelle ossa, rosicchiandole inverno dopo inverno, stagione dopo
stagione. Spegneva la nostra vita o
quello che del mondo ci sembrava sopravvivere, appannava gli occhi ai vecchi
fino ad addormentarli. Chi aveva legna
teneva sempre accesa una fiamma per stemperare quell’aria gocciolante che
entrava dalle carvaglie delle finestre e dalle porte. Non c’erano pinete dalle
nostre parti, così durante la buona stagione si conservava tutto quello che in
inverno avrebbe potuto bruciare, rami, noccioli della frutta, carta bagnata
appallottolata e poi asciugata al sole, rami che il fiume trascinava con sé.
Ci siamo
sempre chiesti come facessero in quella casa a tenere il fuoco spento di
Sabato, quando fuori gelava. Era gente strana. Non si sentivano mai le grida
dei bambini, i giochi nel cortile a correre dietro ad una palla di stoffa. Era
gente oscura, venuta chissà da dove, in silenzio. Ricordo che inquietava un po’
la loro riservatezza. Non erano come noi; loro avevano panni costosi, scarpe
robuste.
Si diceva
che fossero venuti da una città grande,
forse Roma, che fossero fuggiti, chissà da cosa; si diceva così, ma non
sapevamo niente. Non uscivano quasi mai. Una domestica andava al negozio per
comprare il necessario a campare. Salutava col capo basso e gli occhi
socchiusi, cercando di sfuggire la nostra curiosità. Però non aveva mai
lasciato da pagare. Era gente che stava bene quella. Cosa fossero venuti a fare
in campagna lo sa Iddio. Da questo buco la gente scappava lasciandosi alle
spalle le valli e quest’aria che macera i corpi e le anime.
Da quando
c’erano loro ogni tanto arrivava un postino, ma il nome sul campanello non
c’era. Si vede che sapeva chi abitava lì. A volte portava pacchi chiusi con lo
spago, io penso che fossero libri perché una volta me ne lasciò uno da
consegnare e sopra c’era scritto il nome di una libreria di Bologna. Quando lo
portai la signora mi accarezzò la testa e mi diede un biscotto ancora caldo.
Avevo nove anni. – Hai l’età del nostro Schlomo. – Così mi disse.
Schlomo? Che strano nome. Era bianco come il latte, con gli occhi neri come la
notte. Lo vidi quella volta, era seduto ad un tavolino che studiava. Avevo
ragione che erano libri in quei pacchetti, dico io; quell’anno se li avessimo
avuti noi li avremmo bruciati tutti, dal
freddo che faceva. Schlomo non veniva nemmeno a scuola. Quando noi uscivamo al
mattino presto con i piedi gelati, infagottati con tutto quello che avevamo,
lui era in casa, ma non dormiva, perché qualche volta lo avevo visto che mi
spiava da dietro i vetri. Sembrava triste, ma con quegli occhi lì, chi non lo
sarebbe ?
Va là che
quando arriva il caldo e qui diventa tutto verde vieni fuori a giocare anche tu
– dicevo – da qui al fiume è tutto un saltare di ranocchi, ci sono le prugne acerbe dietro al
casone e l’acqua è trasparente e si può fare il bagno perché si tocca. Non sarà
mica malato? – Mia madre diceva che qualche volta usciva nel cortile, quando gli altri bambini erano a scuola, ma stava lì fermo a guardare verso la campagna dove si perdeva l’orizzonte nella nebbia. Non si capiva cosa potesse vedere là nel mezzo, forse qualche lepre, perché ce n’erano, sapete, da quella parte.
– Per me lui guarda la nebbia – disse una volta il mio babbo – perché se uno non l’ha mai vista è un bel mistero. –
La sera stavamo tutti davanti al camino a dondolarci, venivano anche i nostri vicini, portavano con loro qualche ciocco di legna; mio padre tirava fuori il mezzo vino e facevamo passare le ore; non avevo ancora compreso che il tempo passa inesorabile comunque. Io stavo sempre zitto e mi addormentavo sull’irola. A volte sentivo i miei parlare di quella strana gente, chissà chi erano e che lavoro facevano, poiché non si vedeva mai nessuno andare o venire; forse anche loro ragionavano di noi e pensavano che eravamo un po’ selvatici, ma buoni. La mia povera mamma diceva che avremmo dovuto invitarli qualche volta, perché ogni tanto da quella casa veniva della musica e a lei piaceva, ma non era ardita di invitare dei signori.– Mah, giù in paese non sanno nemmeno che ci sono, forse saranno qui per stare tranquilli, ma di questi tempi c’è da pensare. Non è gente cattiva. Però sembra quasi che debbano stare nascosti. –A me dispiaceva perché Schlomo era l’unico bambino della mia età che abitava lì e avremmo potuto passare insieme qualche pomeriggio, anche per fare i compiti, ma soprattutto per giocare perché, pensavo allora, se era gente ricca avrà avuto il bendidìo in quella casa.
Certo ne sono passati degli anni. Quando vengo qui, e mi siedo su questa panchina, per sortilegio forse, mi pare di sentire il suono ovattato di un violino venire dalla vecchia casa, ma quando mi fermo ad ascoltare sento solo i rami frustare l’aria.
I mesi della nebbia non finiscono mai, la mattina c’era un freddo tremendo in casa, il ghiaccio nel catino; le braci che sonnecchiavano nel camino servivano solo per riaccendere il fuoco che serviva alle donne per cucinare. Quell’anno mi ammalai, mi venne una tosse cattiva e dovetti restare a casa da scuola per diversi giorni. Io stavo bene a casa, sotto le coperte o accovacciato vicino al fuoco. Lo vidi anch’io; una mattina vidi Schlomo uscire nel cortile. Aveva un cappotto bellissimo come quelli che usano in città, i guanti di lana e un berretto di pelliccia. Camminava adagio verso il lato del giardino che butta verso il fiume. Questa nebbia maledetta nascondeva ogni cosa, agitai la mano per salutarlo ma non mi vide. Non ebbi il coraggio di chiamarlo. Noi eravamo gente rispettosa e sapevamo stare al nostro posto. Si era fermato a guardare da quella parte ed io capii che mio padre aveva ragione. Quel bambino era immerso in una magia più grande di lui, che oggi non potreste capire. La domestica lo chiamò e si voltò per rientrare. Ho sempre pensato che in quel momento mi abbia intravisto dietro i vetri appannati, ma la nebbia confonde tutto, le persone e i loro fantasmi.
Il giorno stesso arrivò una grossa automobile nera, noi non ne avevamo mai viste così da vicino. Scesero alcuni uomini, li vidi parlottare col padre di Schlomo. Lui rientrò in casa per ridiscendere qualche minuto più tardi con una valigia. Poi ripartirono, così come erano venuti, in silenzio. Ascoltai il suono del motore svanire in un ronzio inghiottito dalla strada. Schlomo era sulla porta con il braccio alzato in un saluto; non vidi bene ma sembrava lacrimasse, in silenzio, come se le lacrime potessero scendere anche senza piangere.
Ancora oggi non so chi fosse quella gente.Qualche giorno dopo la governante venne da noi per chiedere se avessimo visto il figlio dei Signori. Si era allontanato da casa senza avvisare e, poiché non era mai successo, erano in ansia. Erano trascorse già diverse ore.
Mia madre chiese a me, ma io non sapevo dire nulla di più.
– Forse è andato verso il fiume inseguendo qualche animale e con questa nebbia non ha più trovato la strada di casa. Adesso vado a cercarlo. –
– Con la tosse che hai non se ne parla, domanderò a tuo padre, prima che faccia buio. –
Il babbo
prese la strada che va in paese perché secondo lui era impossibile avventurarsi
per le terre con quel tempo, e al primo fosso il piccolo si sarebbe
fermato.
Dopo alcune
ore tornò sconsolato. Aveva allertato tutte le famiglie vicine ma di Schlomo
non c’era traccia.
– Proseguiremo
anche al buio, con le torce, ma ormai comincio a temere il peggio. –
Faceva un
gran freddo, era scesa la notte. Forse
si era rifugiato al vecchio mulino abbandonato. Nel buio vedevo i bagliori
delle fiaccole a gruppi. Sembrava di vedere i fuochi fatui. Le grida erano
attutite dall’aria densa di umidità. Avrei voluto unirmi agli uomini ma ero
piccolo e ammalato. Non tentai nemmeno di uscire di nascosto perché avevo paura
del buio e pensai che anche il povero
Schlomo doveva essere terrorizzato.
Restai a
guardare dai vetri fino al mesto ritorno degli uomini. Del bambino nessuna
traccia.
– Domani
mattina andremo al fiume, l’acqua
d’inverno è più profonda e corre dalla montagna, ma dobbiamo sperare per il
meglio. –
Fu quella
l’unica volta che vidi la mamma di Schlomo. Era bellissima, o almeno così la
ricordo. Parlava con una voce lontana e singhiozzava. Sembrava un dipinto,
incorniciata nella porta.
Il mattino
dopo mi vestii presto ed uscii con gli uomini. Il freddo mi bruciava il viso e
le mani. Seguii il sentiero fino al fiume, ad ogni ombra sussultavo, mi pareva
di intravedere una figura scura, ma si dileguava ben presto, inghiottita dalla
nebbia. Il fiume era limaccioso, la piena sarebbe arrivata verso sera; portava
tronchi e ramaglie verso il mare, nessuno sarebbe sopravvissuto con quel freddo
se fosse caduto in acqua.
Le ricerche
durarono fino a notte, poi la rassegnazione ci prese e ritornammo alle nostre
case, davanti ai fuochi accesi.
– Forse se ne è andato per seguire il padre, con l’incoscienza che hanno i bambini oggi. A quest’ora potrebbe già aver raggiunto la città. –
– Forse se ne è andato per seguire il padre, con l’incoscienza che hanno i bambini oggi. A quest’ora potrebbe già aver raggiunto la città. –
Questo ci
confortò, non volevamo spiriti senza pace vicino a casa.
Due giorni
dopo la stessa automobile scura venne per portare via il resto della famiglia.
La domestica, salutandoci, disse che avrebbero raggiunto il padre in Svizzera,
chissà forse Schlomo era già arrivato con il treno o con mezzi di fortuna.
E di loro
non si parlò più.
Qualche
volta mi torna in mente e penso che il bambino triste si sia fatto mangiare
dalla nebbia e che non sia più tornato. A volte anche le bestie lo fanno;
quando hanno paura se ne vanno da sole a morire.
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