ORARI DI SIRACUSA
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PARASHAH BO: Shemoth X, 1 - XIII, 16
HAFTARAH: Yeshaʽyahu XVII, 7 - XIX, 25Shalom a tutti.
La prima individuazione di diversità, dell’essere stranieri
si ha con la Torre
di Babele. Le interpretazioni non sono certo univoche. Un Midrash legge come punitiva la frammentazione in
tante lingue (implica diversità di etnie e specie) e asserisce che i
costruttori, nella loro verticalizzazione avevano perso il senso della
costruzione con le pietre ma avevano acquisito quello della sfida prometeica
dei fabbricanti di mattoni. Dunque la diversità come confusione, come
punizione.
Furio Biagini invece scrive: “A innalzare la Torre c’era un unico popolo,
non una moltitudine di nazioni, ed è proprio per questa assenza di relazione ad
altro che si manifesta l’intervento divino, per impedire alla pretesa del
singolo di realizzarsi. Il Signore confonde le lingue e disperde gli uomini che
diventano tutti reciprocamente stranieri, nascono le identità sociali,
culturali ed etniche. Improvvisamente tutti sono stranieri gli uni agli altri. Il fallimento della torre
di Babele rappresenta una possibilità per l’umanità. Dispersi, differenti nei luoghi e nelle
lingue, gli uomini cessano di essere una massa indifferente”.
Rav Della Rocca scrive “Con Abraham la cultura Ebraica diventa l’antitesi della cultura della
Torre di Babele, ponendosi come cultura della diversità, della alterità
attraverso un modello di orrizzontalità che è la dialettica (la parola)… Il
dialogo di Babele è impossibile … mancano i concetti di alterità e
interazione. In questo contesto Abraham è il primo Ivrì, nel senso letterale
del termine (ivrì significa dall’altra parte) … afferma la letteratura
rabbinica: il mondo era da una parte e lui dall’altra”.
L’uscita dall’Egitto è un avvenimento collettivo che non
vede coinvolti solo gli Ebrei, ma una moltitudine mista, ʽerev rav, (Rashì, un
miscuglio di popolazioni straniere) di Egiziani che si erano uniti all’Esodo
- scrive Dante Lattes - folle di persone malcontente della condizione in cui si trovavano nella
loro terra natale e che tentavano la sorte in un altro clima, aderendo alla
nazione ebraica con la quale si trovavano già in buoni rapporti, oppure,
escludendo qualunque atto di proselitismo, erano schiere di persone imparentate
da tempo con le famiglie ebree di cui avevano sposato i figli e le figlie, e
quindi erano membri o prodotti di
matrimoni misti e di assimilazione chiamati col nome di erev poiché il verbo
arav nella coniugazione riflessiva è
usato anche per indicare le unioni contratte con gente straniera (Tehillim CVI,
35; Ezra IX, 2).
Ed anche molti stranieri, duecentoquarantamila, uscirono ed
anche greggi ed armenti (Targum Yonatan
Esodo XII, 38).
Anche lo ʽerev rav salì dall’Egitto: “Essi erano miscugli di
Egiziani e di altri popoli che si erano mischiati a loro e si erano aggiunti a
loro pur non essendo figli di Israele” (Abravanel, Shemoth XII).
Sembra che questo fosse il premio dell’esilio, come è scritto:
“Israele non fu redento se non quando si aggiunsero ad esso gli stranieri”.
Quindi insieme con gli Ebrei che uscirono dall’Egitto fece uscire anche
lo ʽerev rav. Liberarono tutti. E questo è il riferimento “Ed amerete lo straniero
perché siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Sfat Emet, Parashat Itrò).
Cerchiamo di capire allora quali sono le categorie di Gente
straniera secondo la legge ebraica.
“Una stessa legge varrà per il cittadino, ezrach, e per lo
straniero, gher, dimorante in mezzo a voi” (Shemoth
XII, 49).
L’aggancio con la nostra Parashah Bo è evidente non solo per
quanto detto precedentemente, ma anche perché mentre le azzime erano il pane
per l’intera comunità ebraica, cittadini o forestieri (oggi solo
l’afikomen non viene data ai gherim) l’offerta ed il consumo dell’agnello era
riservata ai circoncisi, mentre lo straniero (ben nekar o gher), lo schiavo
(eved), l’avventizio (thoshav), il mercenario (sakhir) essendo incirconcisi non
potevano mangiarne (Lattes).
Sostanzialmente tre gruppi o accezioni concettuali diverse:
Zar straniero che abita fuori di Israele, un
altro popolo. Sentimento di paura, diffidenza, inimicizia. Dallo stesso termine
ʽavodah zara: lavoro, culto estraneo, straniero. Ovvero idolatria. Il rischio di
frequentazione e coniugio con popoli diversi comporta il rischio di idolatria.
Sar nemico da cui ci si deve
difendere. Memoria degli Amaleciti.
Secondo alcuni commentatori proprio perché dall’Egitto
uscirono anche altre popolazioni e schiavi egiziani il popolo fu indotto
alla costruzione del vitello d’oro, divinità idolatra che proviene dal bue api o comunque
da deità di popolazioni non ebree.
Ora è attraverso il coniugio, le relazioni sessuali, il
matrimonio misto che il rischio di assumere comportamenti idolatri si fa più
pressante.
Nella Parashà Balac si narra di quando Israele stette in
Scittim e il popolo, maschile evidentemente, cominciò a fornicare con le figlie
di Moav. Le quali attraverso i rapporti sessuali inducevano gli Ebrei a fare
sacrifici e a prostrarsi ai loro idoli. Israel si congiunse al Baʽal Peʽor e
l’ira del Signore si accese contro Israel. Il Signore condanna a morte tutti
coloro che si erano resi empi. Solo quando Pinechas trafigge con la lancia un
Ebreo che si stava congiungendo ad una Midianita si arresta la carnficina, ma
i morti di quella strage sono 24.000. (Bemidbar XXV, 1-9 Parashà Balac).
Nekar (nokri nella forma oggettivale) lo straniero di passaggio e il figlio nato sul
territorio ebraico, il viaggiatore, il viandante. Non c’è più timore ma solo
una diffidenza di estraneità. Anche una diversa normativa dottrinale e legale. Ad esempio si possono dare al
nekar le bestie morte di morte naturale vietate agli Ebrei per ragioni di
impurità rituale: “Non mangerete alcuna bestia morta di morte naturale; la
darete al forestiero che risiede nella tua città o la venderete a qualche
straniero” (Devarim XIV, 20). In generale la regola di base è quella
dell’ospitalità. Vedi Abraham con i tre angeli o Lot con i viandanti (angeli
anch’essi).
Gher lo straniero che risiede in mezzo al popolo
per nascita o che risiede stabilmente fra gli Ebrei.
Generalmente si possono distinguere in gher zedeq quando la
persona aveva aderito alla nazione ebraica con la circoncisione oppure gher
toshav quando era solo noachide.
Con il termine Toshav
(inquilino) secondo Lattes si indicava il Cananeo rimasto nel paese dopo la
conquista ebraica.
Sakhir era l’operaio non
ebreo che lavorava generalmente nelle proprietà rurali.
ʽEved era lo schiavo, pure
straniero acquistato (miqnath kesef) o nato da genitori schiavi nella casa del
padrone (ben baith oppure jelid baith).
Anche Ruth era una ghioret che si convertirà all’Ebraismo, ma
dalla sua stirpe nascerà il Re David e dunque il Mashiac. Moshè stesso dimora
presso i midianiti e le sue stesse origini per quanto ebraiche si confondono,
così come il nome, con quelle egiziane.
Così come Abraham nel suo essere nomade portava in sé il
gene della alterità, dell’altra parte, quella dello straniero: “Io sono
forestiero e di passaggio in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a
voi perché io possa portare via la salma e seppellirla” (Bereshith XXIII, 4).
Moshè chiamò suo figlio Ghershom perché “abito in terra
straniera” (Shemoth II, 22).
Il Gher gode di ampia protezione giuridica.
Non molesterai il forestiero perché
voi siete stati forestieri nella terra d’Egitto.
La memoria del
vissuto in terra straniera come educazione alla tolleranza.
Avrete una stessa legge tanto per
lo straniero quanto per il nativo del paese (Vaykra XXIV, 22).
Vi sarà una sola legge per tutta la
comunità, per voi e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi; sarà una
legge perenne, di generazione in generazione; come siete voi così sarà lo
straniero davanti al Signore. Ci sarà una stessa legge e uno stesso diritto per
voi e per lo straniero che soggiorna da voi (Bemidbar XV, 15-16).
Maledetto chi calpesta il diritto
dello straniero dell’orfano della vedova (Devarim XXVII, 19; Zekharyah VII, 10).
I gherim partecipano alla vita del popolo e della comunità.
Ne fa testo il fatto che vengono giudicati con le stesse leggi. Anche a loro e
ai nokrim viene fra l’altro riconosciuto il diritto di asilo nelle città
rifugio, dove potevano essere al riparo dalle vendette dei parenti delle
vittime (Bemidbar XXXV, 15).
Anche il riposo di Shabbat era obbligo per i forestieri e gli ospiti, gli schiavi e gli stessi animali (Devarim V, 14-15).
In sintesi possiamo ribadire che la legge del Signore è universale e che gli stranieri potevano godere di pari libertà e diritto ad una giustizia equa ed egalitaria.
Anche il riposo di Shabbat era obbligo per i forestieri e gli ospiti, gli schiavi e gli stessi animali (Devarim V, 14-15).
In sintesi possiamo ribadire che la legge del Signore è universale e che gli stranieri potevano godere di pari libertà e diritto ad una giustizia equa ed egalitaria.
Lo spirito della legge è sostanzialmente quello che noi oggi
chiameremmo quello di uno stato sociale,
lo stesso che è sancito dalla legge di Israele.
Israele è uno stato multietnico, multireligioso e
interconfessionale, poliglotta. Oltre agli Ebrei immigrati da ogni parte del
mondo, dalla Russia all’Etiopia all’Iraq all’Italia, dallo Yemen alla Siria e che hanno mantenuto tradizioni,
cibi e anche lingue come il curdo, lo yemenita,
il persiano, l’indi, il cinese, lo yddish, ci sono anche gli Arabi, dunque oltre agli
Islamici i Drusi, i Cattolici, i Greco
Ortodossi, i Malachiti e Bahai ma anche i Circassi (pensate che
scrivono con quattro alfabeti e dunque caratteri diversi, latini, ebraici, arabi e cirillici) e i Beduini.
Noi siamo stati stranieri in Egitto, in Babilonia, ed ora lo
siamo da circa 2000 anni dopo la dispersione in Diaspora. Perduti in terre
spesso ostili.
Chiusi in coagulati umani a difendere la nostra identità. Quello che è stato ritenuto segno
di ostilità era ed è ancora semplicemente la volontà di sopravvivere a noi
stessi con l’integrità della tradizione, con la nostra fede le nostre
costumanze proprio per evitare pulsioni di assimilazione, progressivi
assorbimenti. Perché il giudizio divino sulla promisquità è quello di ʽavodah zara, di idolatria, di avvicinarsi a costumanze e credenze non conformi alla
nostra. Noi abbiamo sempre tessuto l’elogio della diversità. Non ci interessa
la condivisione in materia religiosa quando questa comporta la perdita del
nostro essere soggetti dell’ebraismo.
Se siamo ancora qui, unico popolo sopravvissuto ai millenni,
lo dobbiamo proprio a questi meccanismi di difesa. Questo non vuole dire
autoescludersi dalla società civile, né accettare quello stato che un pessimo
vocabolo indica come tolleranza. Tollerare è una forma di sopportazione, permettere benevolmente qualcosa di negativo (o che si
considera tale) dall'alto di una superiorità
che consentirebbe di impedirlo.
Abbiamo sempre chiesto di essere diversi con pari diritti
poiché nostra regola è
Dina de malkhutà dinà: la legge del regno, dello stato è legge. Noi non dobbiamo imporre le
nostre regole a nessuno né intendiamo condizionare altri comportamenti in
nostra funzione. Anzi, la legge dello stato nel quale viviamo, che ci ospita è
la legge alla quale noi sottostiamo, fermo restando che debbono essere
garantiti i principi basilari della Torah. I nostri tribunali sottostanno alla legge dello stato, non intendono
sostituirsi ad essa.
Certo anche la modernità crea casi difficili e spesso
ingiustificati. Ad esempio, in alcuni stati si è posto il problema della
Milah, la circoncisione, equiparandola
alle mutilazioni genitali di altre culture, spesso tribali. Si chiede agli
Ebrei di rinunciare al principio primo
dell’alleanza del Patriarca Avraham con haShem, in nome di una scelta cosciente
che solo un adulto può fare. Questo naturalmente sarebbe un limite che
travalica il nostro sentimento religioso. Senza tener conto che la circoncisione, come pratica sanitaria,
viene praticata, oltre che dal mondo islamico, anche da molti non ebrei.
D’altronde per noi ha valore l’atto che rimanda al brit milah e non è negoziabile.
Nell’antichità, in epoca romana il brit milah, il patto con
Abraham, la circoncisione creava molto sospetto e costernazione poiché il simbolismo
era complesso in riferimento ad una circoncisione dell’anima e del cuore (vedi Paolo di Tarso) e metteva in gioco
paura inconscia e minaccia di castrazione.
Un caso simile è avvenuto per la macellazione rituale, shechitah. In nome del relativismo culturale si
accettano sottomissioni psicologiche e
violazioni di importanti diritti umani ma si protesta contro una pratica che è
frutto del rispetto per gli animali, regolata da una normativa di purità che
garantisce praticamente nessuna sofferenza e dignità agli animali che vengono macellati per nutrizione
umana. Per diventare shochet oltre ad avere un profilo professionale
elevatissimo, è necessario studiare
halachah, essere puri ed osservanti, perché nella Torah il rispetto per gli
animali è sacrale.
Nel passato ci è stato chiesto di rinunciare alla nostra
peculiarità con l’assimilazione in cambio delle
concessioni dei diritti civili e politici ma siamo ancora qui, sopravvissuti a
tutti gli odi e a tutte le negazioni del nostro essere popolo.
Shabbath shalom
Israel Eliahu
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