ORARI DI SIRACUSA
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PARASHAH YTHRO: Shemoth 18 - 20
HAFTARAH: Yeshaʽiahu 6,1-13 (6,1 - 7,6; 9,5-6) Shalom a tutti.
Da
sempre la parola di D-o ci accompagna e ci
guida. La Torah
è un libro eterno spesso ancora misterioso. La Torah contiene il
passato, il presente, il
futuro. Futuro che noi non conosciamo e dunque non possiamo leggere. La
Torah è un libro aperto,
sempre diverso, sempre più profondo. Ogni
lettura è diversa in relazione a chi la fa, alle nuove conoscenze e ai
progressi
dela scienza, della conoscenza; ogni nuova sapienza trova conferma nel dettato Toraico. Il big bang, la pangea e la deriva dei continenti,
la teoria della
relatività, la teoria delle stringhe e la teoria M.
C’è anche chi ha definito
codici che si possono applicare al testo; codici di lettura: dal codice genesi
ai codici les. D’altronde è sufficiente
che la prima vocale di Bereshith (la
Torah è scritta senza vocali, senza punteggiature e cesure,
c'è chi sostiene che originariamente fosse un unico flusso ininterrotto) venga letta A, bareshith che si apre un altro mondo ermeneutico che potrebbe affrontare una nuova idea cosmogonica.
Per questo la lettura della
Torah non può avere fine, è ciclica, la rirendiamo ogni anno, ogni giorno, come
un libro sempre nuovo, sempre più ricco e sorprendente.
Ci sono 4 livelli ermeneutici:
Peshat (letterale) Remez (nessi unità
confronti relazioni) Darash
(allegoria, simbolismi) Sod (segreto mistico). Conoscete tutti il racconto del Pa-r-de-s.
La Torah è un testo che racconta la storia, anche quella spirituale di un popolo che cerca la sua
libertà sotto la potestà del Signore dei Mondi, ma è anche il libro della legge
di D-o che governa la nostra vita terrena e sociale. Non c’è prospettiva
escatologica dichiarata. Non si parla di un dopo, di una vita eterna o
nell’aldilà. Il premio è questo, partecipare al progetto della creazione,
riscattando la pochezza e la miseria umana che ha allontanato l’uomo dal
progetto divino: “Se darete ascolto ai
Miei precetti che Io vi comando oggi, di amare haShem vostro Dio e di servirlo
con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, Io concederò alla vostra
terra la pioggia a suo tempo, quella autunnale e quella primaverile; potrai
raccogliere il tuo grano, il tuo mosto e il tuo olio; farò crescere l’erba per
il tuo bestiame e potrai mangiare e saziarti”. Il premio ad un comportamento giusto e
all’osservanza è qui sulla terra. Non fare agli altri quello che non vuoi sia
fatto a te stesso, chiosando Hillel. Qui
e adesso. Nella Torah ci sono le leggi della convivenza sociale, le basi di
tutte le civiltà che vogliono chiamarsi tali.
Ogni comandamento può essere
letto in tutto il suo valore, anche con la nuova sensibilità che la nostra
epoca offre.
Poiché quest’anno
l’Assemblea Rabbinica Italiana e la Conferenza Episcopale
Italiana affrontano la riflessione su
Lo Tighnov ecco alcune considerazioni su questo importante e sorprendente
comandamento.
Il comandamento Lo Tighnov non
è solo la difesa fine a sé stessa della
proprietà, del possesso, ma è difesa di
quella eredità che abbiamo avuto in dono
da D-o, il riconoscimento che noi siamo
i prescelti, siamo coloro che dispongono dei beni che il Signore ha dato. Noi siamo
depositari della sovranità sul mondo e sul suo futuro. Noi costruttori, noi
portatori di Tiqqun. Lo Tighnov è difesa anche della libertà,
soprattutto della libertà. Quella che
il Signore ci ha consegnato quando uscimmo dall’Egitto. Questa concezione della
Torah rivoluziona il rapporto fra D-o e l’uomo, definisce un fattore radicale di incertezza, poiché il
futuro è consegnato al libero arbitrio
dell’uomo. Per questo siamo fatti a
immagine e somiglianza di D-o. La
libertà dell’uomo diventa il limite del piano della crezione. Maimonide comprese
la grande sfida, quella della libertà. La nostra libertà è il rischio tremendo di
cui il Signore si è caricato.
Il Talmud ci consegna i sette
precetti noachidi. Anche se la definizione è stata compiuta nel 160 circa e.v.,
tutti vengono desunti dal testo Toraico fino a Noach. Nei precetti noachidi
l’estensione giuridica del divieto di furto, ghezel,
è più estesa di quella che pare espressa nel decalogo. Non commettere rapina,
non spostare pietre confinarie, non frodare, non rifiutare di pagare il giusto
compenso, non concupire, non desiderare la roba degli altri, non sottrarre il
frutto del tuo lavoro, non rapire, non far uso di falsi pesi e misure.
Nei Devarim Lo Tighnov, ghimel
nun vav, g-n-v sembra, scrivo sembra, avere un’estensione più ridotta: non rapinare, non
rapire. Come se si riferisse all’abigeato e alla riduzione in schiavitù. Un
monito dato al popolo del deserto contro le razzie tribali consuete nei
villaggi.
Le dieci parole pronunciate
sul Sinai sono rivolte a un popolo
nomade nel deserto, rimandano ad un’idea di proprietà relativa. Nel Talmud la forma singolare lo
Tighnov è riferita al rapimento mentre lo Tighnovu viene riferita all’accezione
più vasta dell’appropriazione di beni altrui.
Il termine ebraico per
definire ladro in ebraico è ganav. La prima e l’ultima lettera danno la parola gav che significa schiena. Il
furto ha luogo alle spalle della persona derubata, a sua insaputa.
Ma cerchiamo di comprendere
il cosmo etico che si nasconde dietro a queste due parole.
I nostri maestri affermano
che chiunque goda di un bene senza
recitare una berakhah, compie un furto. Perché
tutto quello di cui godiamo non è nostro ma del Padrone del Mondo. Vi sembra
scontato recitare una berakhah per un umile bicchiere d’acqua? Chiedetelo a chi
non ce l’ha ed ha sete.
Questo è il punto centrale.
Siamo ospiti di questa terra, siamo amministratori di un bene non nostro. Nella
Torah l’escatologia e l’immortalità dell’anima vengono solo sottintese. Il
premio all’obbedienza e al rispetto delle leggi di D-o è il benessere, la
fertilità della terra, la fertilità dell’uomo. Nella bellissima simbologia
della rugiada e della manna.
Rav Obadia asserisce che nel
divieto di furto rientra il rapimento, il furto vero e proprio ed anche il
furto della buona fede cioè ghebath daʽat, ovvero il millantato credito, chi si finge
altro da sé, ci inganna, ci limita, induce ad un rapporto viziato dalla menzogna,
con un ricatto sotteso rapina la nostra libertà, i confini del nostro spazio
vitale, la nostra buona fede.
Sta compiendo una truffa a
nostro svantaggio. Appropriarsi della altrui fiducia della altrui onestà
intellettuale, della libertà, dell’intelligenza altrui è un furto.
L’inganno, l’azione compiuta
di nascosto, la menzogna e l’omissione della verità sono un furto. L’omissione
è una menzogna di bassa intensità, ma sempre la rapina del diritto alla verità.
Come è proibito danneggiare
patrimoni, proprietà (“Raccoglierai il tuo grano, mangerai e ti sazierai dei
tuoi prodotti e non di quelli altrui” Dev. XI,14)
e capacità personali, così è
proibito danneggiare con lashon hara, lingua cattiva, e falsa
testimonianza.
Peggio ancora la hotzaat diba, ovvero la calunnia. La lashon hara o peggio la sakhsukhà, la semina della zizzania è un reato
equiparato all’omicidio perché la vergogna porta sangue alle gote ed è come
versare sangue. “HaShem non dimora dove esiste la maldicenza”(Bavlì, Yoma 9b).
Non è un caso che mentre per
il reato di appropriazione indebita vi
sia un minimo valutabile (shavè perutà) non si possono con questo criterio
valutare i beni immateriali e
intellettuali. Qualsiasi comportamento vessatorio sul contratto di
lavoro, l’usura, il ricatto
occupazionale equivalgono ad un
rapimento in quanto questi atti corrispondono non solo al predare le persone del proprio diritto, alla
soddisfazione del compenso per la propria opera ma a rubare l’anima, la propria identità spirituale alla vittima ed alla sua discendenza.
Per i reati sui beni materiali
ci deve essere la teshuvah. La restituzione definitiva del maltolto alla vittima
ma anche agli eredi nel caso fosse
scomparsa la vittima, che deve avvenire sulla tomba alla presenza di un minyan.
Prima si deve ottenere il perdono dalla vittima del furto, poi anche dal
Signore Padrone del mondo.
La libertà di un Israelita è
relativa sia a quella personale, ad ex riduzione in schiavitù (si ricordi
Giuseppe venduto dai fratelli) sia a quella relativa alla difesa della sua
proprietà, fermo restando il concetto che tutto ciò di cui godiamo è temporaneo
perché appartiene a Dio. Lo Tighnov garantisce la libertà, il prestigio e
l’onore sociale, i diritti alla giustizia, alla salute, al culto, alla nutrizione
e al necessario per vivere dignitosamente. Qualunque attentato alla proprietà è
anche attentato alla mia libertà personale e ai diritti dell’individuo. È un
attentato che limita il mio progresso economico, il diritto al benessere e alla soddisfazione
che il Signore mi ha dato, alla dignità
e alla forza morale e spirituale. Predazione commessa contro il patrimonio sacro
ed inviolabile della personalità umana, in ebraico chamas è un atto di violenza,
di predazione.
Vi riassumo quanto scrive
Dante Lattes: L’aumento non giustificato e l’aumento di potenza o di potere, di
autorità, di ricchezza da parte di pochi, lo squilibrio di condizioni economiche,
sociali e politiche è un mancato riconoscimento alla parità all’uguaglianza
alla vita, ai diritti degli altri.
Tutto quello che viene sottratto agli
uomini è sottratto allo spirito universo del mondo, a Dio. La storia ebraica
con le leggi della Torah mira alla realizzazione della giustizia, la negazione
del furto. È un programma di onestà sociale.
I profeti condannano come furto la
sopraffazione sui deboli, come ladri coloro che
si arricchiscono di rapina, chi ha grandi proprietà terriere, chi
edifica case sontuose sfruttando gli operai. “Guai a chi edifica la casa senza
onestà, e i suoi appartamenti senza giustizia. A chi fa lavorare il suo compagno
e non gli dà mercede del suo lavoro” (Geremia, 22,3).
Isaia chiama complici di ladri, chaberè
gannabim, i capi che frodano la giustizia.
Amos minaccia chi froda con bilance
dolose o comprando per denaro i poveri.
È apocalittica l’idea insistente nel
profetismo ebraico. Isaia, Michea, Osea, i Salmi tutti si schierano contro le
società violente, contro la sopraffazione, la spoliazione, l’oppressione, la
rovina collettiva e nazionale.
Secondo l’ebraismo si ruba anche quando
non si dà con giustizia Tzedackà. Si frodano i poveri quando non si dona
facendo in modo che la giustizia sociale e il diritto di tutti alla terra e al
benessere non siano possibili.
Quando non si partecipa a qualunque
titolo per migliorare la condizione di tutti gli uomini, di tutto il mondo
perché il creato è un deposito sacro.
“Non devi derubare il povero perché è
povero”. A questa frase del Mislè (Mislè Sandebar, raccolta anonima di novelle
medievali) che appare ingenua si chiedeva: Ma che si deve rubare a chi non ha
nulla? Quello che noi dobbiamo donare,
quello che abbiamo obbligo di donare seguendo i principi della Torah. Le spighe
non raccolte, i grappoli d’uva non mietuti, l’angolo del campo che si deve
riservare ai poveri. La decima per i poveri.
“Se entri nella vigna del tuo prossimo,
potrai mangiare uva, secondo il tuo appetito, a sazietà, ma non potrai metterne
in alcun recipiente. Se passi tra le messi del tuo prossimo, potrai coglierne
le spighe con la mano, ma non mettere la falce nelle messi del tuo prossimo”
(Deut 23, 25–26).
Noi dobbiamo dare agli altri quanto loro
appartiene per diritto naturale. Restituire a chi ne è stato privato l’umanità nel possesso e nel godimento dei
loro diritti. Questo è il senso profondo di Lo Tighnov. Questa è la giustizia
ebraica, la tzedakà, è un precetto, una mitzvah. Se passiamo vicino ad un
povero, all’affamato, al nudo e pensiamo di avere le mani pulite è solo perché
siamo degli onestissimi ladri.
Quando il popolo di Israele
entrò in Eretz Israel si procedette alla divisione della terra a seconda del
numero delle tribù. Ogni famiglia, ad esclusione della Tribù di Levi,
possedeva un territorio inalienabile. La terra si poteva vendere, regalare, ma
doveva tornare al legittimo assegnatario. Quando c’è il Giubileo, ogni 50 anni,
tutte le cessioni devono decadere. In questo modo nessuno può arricchirsi per
aumento del capitale. Dunque la terra patrimonio inalienabile, sempre con la
certezza che non di proprietà si tratta ma di affido, poiché la terra appartiene
a D-o.
Comunque di ogni raccolto
devo partecipare la collettività con le decime ai Sacerdoti, ai Leviti. La
decima del terzo e sesto anno va ai
poveri. Anche tutti i prodotti agricoli che cadano, per maturazione o
accidentalmente, durante la raccolta non
sono più di proprietà del possessore del fondo ma dei poveri. Non si possono
consumare e raccogliere nemmeno i prodotti che presentano una forma naturale
non perfetta. Anche questi devono essere ritornati ai poveri.
Comunque un angolo del mio
campo deve essere recintato e destinato ai poveri.
Se pianto un albero per i
primi tre anni è proibito raccogliere e consumare i suoi frutti. Il quarto anno posso raccoglierli ma
destinarli ad opere sociali.
Ogni sette anni devo lasciare
incolto il mio terreno, tutto quello che vi nascerà spontaneamente deve servire
di nutrimento a chiunque ne abbia necessità.
Alla fine del settimo anno
verranno anche rimessi tutti i crediti. Il senso è che se tu avevi prestato
qualcosa a qualcuno è perché costui ne aveva bisogno, tu lo hai aiutato perché
avevi possibilità. Se lui non te lo ha restituito è perché non può. Certo è una
forma di giustizia e controllo sociale elevatissima e molto avanzata, come solo
alcune popolazioni primitive possono applicare, vedi il Potlach di alcune tribù
africane.
Vedete dunque come dietro a
queste due parole vi sia l’intero impianto etico di una giustizia che
amministra e tutela il valore più importante di un ebreo: la libertà. Ma che
proprio nell’osservanza ricongiunge l’uomo al progetto che D-o ha palesato su
di lui. Certo D-o che ha creato le cose visibili ed invisibili non ci ha rivelato il mistero, ma ci ha dato gli
strumenti per realizzare hic et nunc un piano di giustizia sociale sull’eterno
diritto alla vita e al bene.
Testi di riferimento:
Dante Lattes: Settimo (sic)
Non rubare Formiggini, 1925
Rav Umberto Piperno: Commento
all’ottavo comandamento. Archivio Torah.it
Rav Luciano Caro: Il
giubileo.
Shabbath Shalom
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