Passaggio del Mar Rosso
Haggadah, Spagna XIV sec. - University of Manchester's Rylands Library
ORARI DI SIRACUSA
ore 16.42 - 17.44Per le altre località clicca Q U I
PARASHAH BESHALLACH: Shemoth 13,17 - 17,16
HAFTARAH: Shefatim 4,4 - 5,3 La separazione dal passato di schiavitù è una nascita, è il passaggio a un nuovo stato. Simbolicamente l’acqua ha sempre un valore lustrale. Ogni giorno con la netilat yadaim torniamo alla vita dopo l’abbandono del sonno. C’è un racconto doloroso da Auschwitz: resosi conto che stava per essere assassinato, un prigioniero Ebreo chiese come ultimo desiderio, quello di avere acqua. Gli venne accordato. Ma quando ebbe la tazza d’acqua anziché bere fece la netilat yadaim. Al carnefice che gli chiedeva stupito a che gli servisse morire con le mani pulite l’uomo rispose: devo pregare prima di morire.
Così è nel miqweh, il bagno
di purificazione è un cambiamento di stato, siamo pronti per avvicinarci
all’Eterno. Così faceva il kohen haGadol prima di ritirarsi nel Sancta
Sanctorum.
Dal ghetto di Bochnia giunge il racconto di un gruppo
di donne che prima dell’esecuzione chiesero di poter fare il bagno rituale nel
Miqweh. – D-o ha condotto le nostre anime
pure in questo mondo, nella casa pura dei nostri genitori, e noi desideriamo
tornare al nostro padre in purezza -.
Ma l’acqua ha anche il
significato profondo che rimanda alla nascita, al liquido placentale della
maternità. E questo è appunto il valore del passaggio del mare rosso.
Divaricazione, rottura delle acque, il sangue e la luce di Eretz Israel e di
D-o davanti come guida verso la salvezza, verso la libertà.
La nostra parashah è molto
densa di nuovi motivi di riflessione. L’incontro con lo Shabbat e le prime regole di halakhah.
La manna che non cade di
Shabbath, ma viene trovata in dose doppia il giorno precedente.
La manna, il nutrimento dopo
la nascita, il cibo che nella dimensione dell’assenza che è il deserto si
distilla come nutrimento spirituale. Pane, olio e miele. Ci racconta un
midrash: quando lo assaggiavano i giovani
aveva il sapore del pane, quando lo assaggiavano i vecchi quello del miele e
quando lo assaggiavano i bambini prendeva il sapore dell’olio (Shemot Rabbà,
25). Ognuno secondo suo giovamento.
Cosa fosse la manna, il
frumento celeste che nutrì il popolo nel deserto, non interessa. Un lichene,
una sostanza gommosa o le secrezioni di qualche insetto, non importa. Noi ne
percepiamo il valore di trasfigurazione simbolica. Il suo legame è con la
rugiada, il premio che il Signore dà al suo popolo. Ancora ritorna l’idea
dell’acqua salvifica. Ma il medioevo legge nella manna la condensazione della
luce divina che si fa materia. Dunque la Shekhinah che imbeve gli uomini della sua luce ma per
innalzarli in un percorso di libertà, autodeterminazione, libero arbitrio.
La testimonianza della
presenza divina accanto ad Israele.
Scrive Broch in Erkennen und Handeln:
“Qualcosa di prometeico è affidato all’uomo, qualcosa
che nessun essere animale possiede, ovvero la tensione verso la libertà
assoluta che lo pone al di sopra della natura creata e delle sue leggi, pur se,
con il suo essere fisico, egli continua ad essere sottomesso senza poter
sfuggire al loro dominio e pur se esse non siano manifeste se non grazie alla
virtù della sua conoscenza. Indomito
resta il fuoco della natura terrestre, restano il vulcano e la folgore e
indomita resta la libertà nell’anima dell’uomo”.
Nella Cabbalah le
interpretazioni in senso mistico della manna sono molteplici, ma per questo vi
rimando, come spesso accade, al prezioso libro di Giulio Busi: Simboli del
pensiero ebraico.
Ma sulla strada della libertà
compare il dubbio, quella paura che proprio nel deserto, senza confini, senza
riferimenti di un orizzonte, si aggrappa al cuore degli uomini.
Poi tutto viene messo in
discussione: la memoria della schiavitù, l’esodo, un futuro che appare incerto
e pericoloso, la mescolanza dello ʽerev rav che mina
l’identità del popolo ebraico, il timore della fame e della sete. Così da
questa massa disorientata erompe la domanda “Il Signore è in mezzo a noi?”
(Shemoth, 17,7). È un nemico che si annida all’interno dei cuori, il demone cupo
e lacerante del dubbio.
Allora questo nemico si fa
carne, si concretizza in quello che per sempre rimarrà il simbolo della ferocia
cieca e irrazionale, dell’odio violento e immotivato: ʽAmalek.
ʽAmalek attaccò Israele in Refidim…" (Shemoth,
17,8).
Scrive Roberto della Rocca:
Il Kelì Jakar osserva
acutamente che le lettere della parola "Refidim" sono le stesse della
parola "peridim" che significa "disgiunti",
"scissi", ribadendo, così, che la frattura e la disgregazione sono la
causa principale dell'avvento di Amalek”.
Sul sito cabala.org trovo un'ulteriore estensione:
“Il
luogo dove avviene il primo attacco di Amalek contro Israele è Refidim, un nome
legato alla radice indicante “debolezza” (rafà). I Refaim sono una delle cinque categorie di persone che
compongono l’Erev Rav. La prima di quelle cinque categorie è comunque quella
degli Amalekim, i discendenti di Amalek”.
Dunque una frattura interna, una identità compromessa, espone il
popolo ebraico ad una aggressione. Questo sarà il paradigma nel quale
riconosceremo tutti le tragedie che hanno visto il popolo ebraico vittima
dell’odio. Oggi la modernità riflette ancora una volta questo.
La battaglia contro ʽAmalek non è ancora terminata. Ma oggi il
nemico è ancora più subdolo, ha le sfaccettature della molteplicità ideologica,
politica, religiosa, si serve delle sgangherate democrazie che offrono la
libertà di insultare, di aggredire, di fecondare il terreno dell’ignoranza col
seme della paura, della catastrofe, del complotto.
L’imperativo oggi come allora
è: Ricordati di ʽAmalek.
Shabbath Shalom
Israel Eliahu
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