giovedì 21 marzo 2013

SHABATH HAGADOL 12 NISSAN 5773 / 22-23 MARZO 2013

Samuel Hirszenberg: Shabat
ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  17.54
Havdalah            18.52  

PARASHAH TZAV: Vayqra 6 - 8     
HAFTARAH TZAV: Yrmeyah 7; 8, 1-3; 9, 22-23

 Shalom a tutti.

Come di consueto un breve approfondimento su un tema tratto dalla Parashah di questa settimana, che vuole offrire lo spunto per  riflessioni e confronti.
All’inizio della nostra Parashah il Signore comanda ad Israele, attraverso Moshè, di mantenere sempre acceso il fuoco sull’altare. Anche oggi, nelle Sinagoghe, c’è sempre un Ner Tamid che arde davanti all’Aron Kodesh, proprio in ricordo del fuoco che ardeva perennemente sull’altare dei sacrifici nel Tabernacolo, durante la permanenza degli Ebrei nel deserto, poi nel tempio di Gerusalemme.
Questa piccola parola di genere femminile, Esh costruita con due consonanti, Alef e Shin, lettere madri, significa fuoco. La sua stessa pronuncia evoca il vibratile elevarsi della fiamma pantamorfa. Il fuoco innalza lingue simili a foglie di palma. I 4 bracci della Alef il cosmo compiuto, la sovranità del Signore e i tre bracci della Shin “ma ale lulavin” come foglie di palma, armonia e simmetria, lo spirito divino, fanno di questa parola una costruzione in sé compiuta.  Anche la Torah , parola di D-o, è fuoco nero su fuoco bianco. Sempre quando il divino si manifesta il fuoco accompagna la teofania. Pare quasi che accompagni D-o come sua prossimità manifesta.
Si direbbe abbia una funzione di mediatore simbolico che rapporta l’umile natura degli uomini alla misteriosa rivelazione di D-o.
C’è una connessione intima fra il D-o d’Israele e il fuoco. Il fuoco è anche il simbolo parallelo all’acqua lustrale della purità. Nel fuoco ci si monda, ma mentre il fuoco divino non si estingue quello degli uomini va alimentato. Spesso nella Torah la parola divina è fuoco: “e un fuoco uscì dal cospetto del Signore”.
“Moshè guardò ed ecco: il roveto era in fiamme, ma quel roveto non si consumava” (Shemot 3, 2). "Come questo roveto brucia in mezzo al fuoco -dice il midrash- eppure non si consuma, così gli Egiziani non potranno distruggere Israele”. Dove  gli Egiziani sono tutti gli Amalek, tutti i nemici di Israele passati e presenti.
In molte cosmogonie il fuoco è uno degli elementi primordiali e in molta letteratura apocalittica si prefigura l’azione del fuoco come ecpirosi. Nella temperie del pensiero ebraico medievale, Maimonide postula una equazione fra tenebre (choshekh), uno dei 4 elementi della creazione, e fuoco diafano, fuoco non luminoso, fuoco nero. Anche Nachmanide riprese il concetto di fuoco di tenebre nella dottrina della creazione perché  “… il fuoco è detto oscurità poiché il fuoco elementare è oscuro.”
Scrive Busi: “La nerezza di quel fuoco contiene in sé tutte le sfumature che apparentemente nega, la sua impenetrabile oscurità racchiude anche -nella immaginazione cabbalistica- la visione di ogni oggetto futuro”.
Ma il fuoco è luce, scrive Rashi in un commento a Geremia: “nel luogo nel quale non c’è un lume non c’è pace giacché chi procede inciampa, e procede nelle tenebre".
A Channukà il fuoco testimonia non solo l’avvenuto miracolo dell’olio, ma il fuoco di Israele, la channukia di ogni casa deve essere ben visibile da fuori: anche questa luce illumina lo spirito, per questo è proibito usare i nerot come strumenti per guardare la quotidiana occorrenza. Eppure il fuoco è anche l’unico elemento nel quale l’uomo non può vivere, ma è in grado di crearlo, non così con gli altri elementi. Come abbiamo visto nella derashà su Shabbat, il fuoco che pure apre lo Shabbat con l’accensione dei lumi affidata alla donna e lo separa dalla settimana con la Havdalah affidata all’uomo, non può essere acceso durante lo Shabbat perché rappresenta il dominio dell’uomo sulla natura. Ma il fuoco che viene acceso è quello che rischiara la vita spirituale, nella luce della Torah, nella osservanza dei suoi precetti. Scrive Jonathan Pacifici: “La benedizione dello Shabbat è proprio nella capacità umana di confrontarsi in maniera assolutamente impari con l’infinito ed accendere un lume alla presenza della Luce, perché se non ha ancora diritto alla Luce superiore, nulla lo esime dal cercare il massimo della luce della quale è capace”.   
Quel lume sabbatico -scrive Giulio Busi- simboleggia dunque, nella diaspora, quel fuoco perenne che ardeva sull’altare del tempio, secondo la prescrizione biblica: "Un fuoco continuo arderà sull’altare, non deve spegnersi" (Vaikrà 6, 6). Solo la fiamma di quel fuoco poteva restare accesa di Sabato e testimoniava, nel silenzio di ogni altra luce, la presenza visibile del D-o d’Israele”.
Shabbat shalom
Israel Eliahu    

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