mercoledì 28 novembre 2012

SHABATH 17 KISLEV 5773 / 30 NOVEMBRE-1 DICEMBRE 2012


Boris Dubrov: Shabath, 2009

ORARI DI SIRACUSA
Accensione ore   16.24
Havdalah     ore   17.25
Per le  altre località vedi  http://www.myzmanim.com/search.aspx

Parashah Vayshlach: Bereshith 32,4 - 36,43
Haftarah Vayshlach: (secondo il rito sefardita) ʽObadiah 1-21



L
e due figure di Esaù e Yaʽakov sono diventate paradigmati­che nel mondo Ebraico. Il Rabbi di Piazens nel suo Esh Kodesh dice: "Le mani di Esaù prevalgono sulla voce di Giacobbe quando gli Ebrei non si occupano della Torah e non educano i loro figli secondo la Torah". 
Un Midrash racconta che "… quando Giacobbe ed Esaù erano ancora nell'alveo materno, Giacobbe disse ad Esaù: - Esaù, fratello mio, siamo due figli e abbiamo due mondi di­nanzi: questo mondo e il mondo futuro. In questo mondo si mangia e si beve e si fa commercio; ma nell'altro non è così. Se tu vuoi prendi questo mondo ed io prenderò il mondo fu­turo. - Esaù scelse per sé questo mondo e Giacobbe quello a venire.
Quando più tardi Giacobbe ritornò dalla dimora presso La­bano recò con sé mogli e figli, schiavi, ancelle, animali, ar­gento ed oro.
Vedendolo fornito di tutti questi beni Esaù gli domandò: - Giacobbe, non avevi detto che tu avresti preso il mondo a ve­nire ed io questo mondo? Come mai allora possiedi quello che appartiene a questo mondo esattamente come succede a me?
Giacobbe gli rispose: - Questa non è che una piccola parte delle ricchezze che il Signore mi ha assegnato per i bisogni di questa vita. - Allora Esaù ragionò fra sé: Se dei beni di questo mondo, dai quali per la verità dovrebbe essere escluso, il Signore gli ha elargito tanto, quanto grande sarà la parte che a lui toccherà nel mondo futuro!?!? "
(Tana debe Wliahu, Zuta)
da  R. Pacifici: Midrashim

Pure Esaù, minaccioso e gabbato, riesce a comparire nelle leggende ebraiche come l'astuto Esaù, dispensatore di consigli e giudizi come nel caso che segue:
Portarono davanti ad Esaù un ladro che non voleva confes­sare il proprio reato. Esaù gli disse - Confessa che hai ru­bato! -
- Io non ho rubato - rispose il ladro.
Allora Esaù disse -Vedo dunque che sei un uomo schietto e pio, non è giusto che un uomo onesto come te sia chiamato ladro. Dimmi solo come si chiama colui che ha diviso con te il bottino -
Allora il ladro disse - Quel miserabile è riuscito a fuggire te­nendosi tutto il bottino, anche la mia parte -
L'uomo fu così riconosciuto colpevole e condotto in prigione.
da  Fiabe e leggende ebraiche.
Comunque sia queste due figure hanno alimentato anche il tristo e bieco sentimento antisemita che anche di questo si nutre.
Nel 1944 un tal Goffredo Coppola, la cui memoria è an­data perduta scrisse:  "... scorgo nel rosso e irsuto Esaù il bolscevico diseredato e violento che servirà con le armi suo fratello Giacobbe-Israele, uomo di città e senza peli. ... Esaù e Giacobbe  sono i due aspetti della politica Giudaica l'uno il bolscevismo l'altro il capitalismo affaristico e plutocratico".
Fate attenzione perché questa retorica blasfema è ancora vi­tale ed è tornata sui giornali e su internet in questo periodo di crisi economica mondiale. La ferocia nascosta nelle tene­bre è ancora in agguato.
Ma torniamo alla nostra derashà.
Lo stupore attonito dell'ineffabile si fa profezia.
Maimonide stesso nella sua Guida dei perplessi riconosce
nell'episodio della lotta con l'angelo un valore profetico.
Naturalmente nella voce degli angeli si riconosce l'intenzione di D-o: "Il Signore disse per mano (voce) di un angelo" (Gen Rabbah 63).
Maimonide classifica 4 forme di profezia
1) Il profeta afferma apertamente che il discorso proviene da un angelo.
2) Il profeta riporta solamente il discorso fattogli dall'angelo ma non afferma di averlo avuto in sogno o in visione, confi­dando nel fatto che non c'è rivelazione se non in questi due modi: "In visione a lui Mi farò riconoscere, in sogno con lui parlerò" (Num 12,6).
3) Il profeta non parla dell'angelo ma attribuisce il discorso a
D-o che gli avrebbe parlato in sogno o visione.
4) Il profeta dice semplicemente che D-o gli ha parlato e gli ha detto fa' oppure opera oppure riporta questo!
Senza nominare angeli, confidando nel fatto che è noto che non c'è profezia né rivelazione se non in sogno o visione.
Ascrivendo la frase - Egli disse il tuo nome è Giacobbe -, al secondo caso Maimonide passa ad analizzare la lotta con l'uomo: "Io dico parimenti, a proposito della vicenda di Gia­cobbe, laddove sta scritto - E lottò con lui un uomo - che que­sto rientra nella forma della rivelazione, perché alla fine di­venta chiaro che quell'uomo era in realtà un angelo ... prima si dà l'informazione generale poi la Torah prende a spiegare quanto è accaduto. A proposito di Giacobbe sta scritto - E gli si opposero gli angeli di D-o; poi si prende a spiegare come erano andate le cose dicendo che Giacobbe aveva mandato de­gli inviati etc... Poi si dice - E Giacobbe rimase solo- e quell'uomo corrisponde agli angeli di D-o di cui si era par­lato all'inizio - E gli si opposero gli angeli di Dio- Ora è evidente che la lotta e il discorso sono accaduti tutti in una visione profetica".
E in effetti nei vari midrashim su questa parashah si parla sempre di un angelo.
Questo è un midrash al versetto Gen. 32,25 "E un uomo lottò con lui".
V'è chi dice che fosse Mikael. Gli disse Mikael: "Se tu hai potuto vincere me che sono uno dei capi delle schiere angeli­che, perché allora temi Esaù?-
Disse Rabbi Tarfon: Mikael non poté muoversi dal suo po­sto finché Giacobbe non glielo permise: è detto infatti "man­dami via perché spunta l'alba".
Gli disse Giacobbe "sei forse un ladro o un giocatore che hai paura dell'alba?"
Sopraggiunsero allora le schiere del Servizio Divino e dissero:
"Mikael, sali! è giunta l'ora del canto, se tu non vieni a in­tonare il canto resta sospeso!" Allora Mikael supplicò Gia­cobbe:
"Mandami via, ti prego, onde non abbiano a bruciarmi, gli angeli che risiedono nell'Empireo, a causa del ritardo del canto!"
"Non ti manderò via finché non mi avrai benedetto" (Gen. 32,27)
"Hai forse bisogno della mia benedizione? Chi è superiore il figlio o il servo? Io sono il servo e tu il figlio".
Gli rispose Giacobbe "nonostante ciò benedicimi".
Allora Mikael disse: "Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele" (Gen. 32,29) Beato te figlio di Donna che sei en­trato incolume nella reggia di Dio (Mid. Abkir).
da R. Pacifici: Midrashim

Dunque D-o ha messo nel cuore degli uomini il mistero e ha dato loro il dono della profezia per svelarlo, ma trascende ogni possibilità dell'uomo raccontare il segreto, l'alam. Anche la rivelazione è incompleta, mascherata. Nemmeno a Mosè il Signore rivelò completamente la Torah, rimase il mistero delle corone sulle lettere che solo a Rabbi Achiba furono sve­late.
D-o dimora nelle tenebre più profonde (1,Re 8,12).
Il suo mistero è celato per sempre all'uomo, "le cose occulte appartengono al Signore" (Deut. 29,28).
Così restiamo ancora una volta nello stupore assoluto da­vanti al nome ineffabile.
Shabbat shalom
Israel Eliahu

lunedì 26 novembre 2012

Racconto breve: 1348



Dicono fu per sortilegio, quando dal bosco rampicarono le erbe sulle torri, quando il cielo fu nero della notte a venire, che udimmo le parole.
Quando ogni altra voce fu sospesa, non corse lo zoccolo del cervo, e il cielo si tacque di preghiere e di tuono; quand’anche il lamen­tare dell’acqua sulle pietre del borgo si spense, allora udimmo le parole. Distintamente, rotolate come ciottoli dalla montagna, so­spese nel silenzio fra un balzo e l’altro. Non era il canto della gio­vanetta perduta nel dirupo, né la fame insaziata della bestia che, al limitare della terra di maggio, scrutava le luci nelle case, dove le nostre figure apparivano ombre, ombre come fummo e siamo. Ac­cendemmo i fuochi ché il maledetto non colpisse di nascosto, sica­rio fra le ombre che il vento spingeva, con crepitio di ramaglia. Nel bagliore della fiamma, protendemmo le mani, col gesto bene­detto.

Ancora a sentinella, sul varco del fienile restò l’agnello, che di sangue bagnò le porte, testimone che un giorno noi fummo i sal­vati.
Disse il saggio Chaim “Sono parole che non so comprendere, un suono antico di uomini caduti. Resti chiusa la porta e si pongano i segni e i lumi alla difesa. Sarà il soldato di cuoio e di ferro nutrito che porterà la forza; contro la voce che dal nulla procede, altro nulla si chiami”.
Nella notte nessuno cammina, nessuna parola si fa materia
nell’ombra, tutto è vano quando non si può vedere, né lo spirito corre nel buio.
Vano è il timore del nulla, ché ogni fantasma può apparire, ma nessuna parola si fa materia.
Sprangammo le porte e il calice d’argento del profeta fu posto sul desco, di vino e d’argento come fu comandato.
Fuori, nel cielo, le tre stelle portarono le tenebre; e un gelido vento sibilò dal bosco fin nella valle dove spense il luccicare dei bastio­ni, per sempre. Perché non c’è sentinella che vede nell’oscurità; lugubre era l’ombra che portava lamento da lontano, come pece che bolle, la veste nera del peccato, la fosca profezia della co­scienza.
Scivolò per le strade un orrendo fetore, di solfo, di demonio, di carcame che vomita sanie; una malsana resina che come un cancro alla carne si appiglia, coll’ugne s’attanaglia e squarta e squarcia, come alla giostra sbrana la zagaglia.
Prendemmo sale dalle botti, e con sale purgammo i figli, ma il nu­trimento cagliò sui loro visi di latte e di vermiglio, il marchio a fuoco, l’orrendo sigillo della peste nera.
Nera come l’orrida tenebra che la partorì, come il cuore spaccato del bue.
Coprimmo i pozzi rilucenti, che la morte non si guardasse, non si riconoscesse nello specchio sull’acqua;  shivà contammo, shivà contammo, un giorno dopo l’altro cominciando da capo.
Come in un sepolcro avvolgemmo il tallith sul nostro lutto.
                                           
Suonavano le campane da Worms, da Darmstadt, da Mannheim.
Cavalcarono i Cavalieri di Cristo, armati di lancia e d’onore del fuoco, che l’universo monda nell’olocausto.
Dal bosco giunsero urlando, con voce tonante al galoppo, come tempesta l’orda flagellò gli orti, scannò le bestie del pascolo. Ca­valcarono i Cavalieri di Cristo, scoperchiarono i nostri pozzi, così la morte si specchiò sull’abisso; non la peste ma gli uomini  ricon­segnarono alla terra quelli fra noi che erano ancora vivi.
Israel Eliahu

giovedì 22 novembre 2012

SHABBATH 10 KISLEV 5773 / 23-24 NOVEMBRE 2012


Boris Dubrov 2006

ORARI DI SIRACUSA
Accensione ore 16.26            
Havdalah    ore 17.26
Per le altre località vedi  http://www.myzmanim.com/search.aspx

PARASHAH: Vayetze (Bereshith 28,10 - 32,3)
HAFTARAH: Hosheaʽ 11,7 - 12,14

Shalom a tutti.
Questa è l'unica volta che la parola «scala» viene nominata nella Torah. E questo avviene nell'oc­correnza di un sogno. Anche se la raffigurazione successiva ha sempre rappresentato una scala a pioli di tipo tradizionale, ci dice Busi che la radice nsb, star ritti, fa pensare più ad una vertiginosa prospettiva verticale che dalla terra si erge verso lo spazio cosmico. Quindi un veicolo di congiun­zione dalla dimensione umana e terrena a quella superna. Secondo la tradizione ebraica dell'età tardo antica la scala che penetra le sfere celesti potrebbe essere metafora delle linee sulle quali si spostano gli astri negli spazi superni, simbolo archetipale della perfetta bellezza del creato; e per i cabalisti dell'età successiva rappresenta una complessa macchina teosofica che distribuisce le forze dell'emanazione del cosmo.
Nel Sefer ha Zohar la scala viene interpretata come la preghiera "poggiata sulla terra, corrisponde alla shekhinah perché gli uomini la intonano sulla terra e giunge al cielo, che equivale al Santo, sia Egli Benedetto", insomma svolgerebbe la funzione dei tefillin, il ponte, il veicolo della verticalizza­zione del pensiero a D-o.
Ma quello che ci interessa maggiormente è che questa rappresentazione avviene in un pensiero onirico autoriflessivo che, contrariamente a quanto avviene di solito nell’ampia casistica onirica della Torah, non viene interpretato ma, anzi, interiorizzato come una esperienza ineffabile, sublime.
Nella Torah generalmente il sogno, chalon, ha valenza profetica, traspone l'occorrenza del quotidia­no in una teofania, per questo necessita di un'interprete.
Scriveva Rabbi Chisdà: "Un sogno non interpretato è come una lettera non letta". E Yochanan ben Nappacha diceva: "Tutti i sogni dipendono dall'interpretazione. Le visioni notturne sono una forma incompleta della profezia".
L'esercizio dell'anima che si distacca dal corpo ogni notte per ascendere verso la propria sorgente celeste, come troviamo scritto nel Sefer ha Zohar, parrebbe aver necessità di una chiave di lettura legata ad un interprete che possa dare un senso alla visione.
E se la scala è una misteriosa manifestazione del divino, come pare, si potrebbe supporre che in essa sia celata una realtà dinamica in potenza, in cui il sogno si definisce quasi come un avverti­mento divino.
Ma è pur vero che Yishak Israeli alla fine del primo millennio definisce le immagini oniriche come strumenti dell'intelletto per comunicare le proprie forme all'anima e Saʽadyah Gaon come visioni che hanno una relazione col vissuto e l'esperienza sensoriale che nel sogno viene, in qualche modo, ricostruita.
Dunque che connotazione ha il sogno di Giacobbe?
Non è, come sarà Giuseppe Baʽal hachalomoth, il signore dei sogni, perché Giuseppe, vedremo, pos­siederà la chiave di lettura onirica, sarà interprete delle visioni notturne del Parʽoh.
Noi comprendiamo, come ha scritto Maimonide, che sogni e visioni sono un eccesso, una sovrab­bondanza di influsso divino che deborda suscitando il manifestarsi delle verità superne, ma Gia­cobbe nutre un altro sentimento davanti al suo sogno; Giacobbe prova quello che Heschel chia­merà in «L'uomo non è solo" lo stupore radicale, quello che si prova di fronte all'ineffabile.
Giacobbe prova il senso del sublime, quello che forse ancora non gli si era rivelato, che esiste una dimensione altra dello spirito; quello che raramente riusciamo a definire compiutamente e a comu­nicare ad altri.
In definitiva prende corpo quel sentimento che esiste in noi ma che si maschera nella quotidianità dei gesti: la consapevolezza dell'ignoto. E comprende che le ricerche della ragione - scrive Heschel - finiscono sulle soglie del conosciuto. Nel sogno Giacobbe si inoltra in questa dimensione che con­fusamente non riesce a definire, ma che lo meraviglia; e la meraviglia dice ancora Heschel, è all'i­nizio di ogni filosofia, di ogni elaborazione del pensiero che si eleva verticalizzando, verso il di­vino. Quando ci coglie il dubbio noi poniamo domande, ma quando ci coglie lo stupore non riu­sciamo nemmeno a formularle.
Termino con questa citazione da L'uomo non è solo:
"Il senso dell'ineffabile non assopisce la ricerca del pensiero, anzi, al contrario, perturba i placidi e dissuggella la nostra impressionabilità repressa. All'ineffabile ci si accosta attraverso una pro­fonda conoscenza, e non con ignorante sguardo animalesco. Per coloro che non cadono nell'errore universale di considerare come noto un mondo ignoto e di dare soluzioni prima di avvertire l'e­nigma, l'abbondanza di ciò che è esprimibile non sostituirà mai il mondo dell'ineffabile".

SHABATH SHALOM!

 

mercoledì 21 novembre 2012

INVITO ALLA LETTURA



Fra il 1835 e il 1836 Carlo Cattaneo scrive un saggio sulla questione ebraica. Prende lo spunto da un fatto di cronaca, un contenzioso fra Sviz­zera e Francia dovuto al fatto che cittadini francesi di religione ebraica avevano acquistato un terreno nello stato di Basilea Campagna; stato nel quale era stata approvata una legge costituzionale che proibiva agli Ebrei di avere possedimenti. La Francia si richiamò agli accordi intercorsi fra i due stati che ammettevano il possesso immobiliare dei suoi cittadini su ter­ritorio elvetico. Al di là della querelle, quello che interessa è la lucida ana­lisi politico economica e in particolare giuridica rispetto agli accordi inter­nazionali, ma anche al nuovo senso di condivisione e libertà  democratica, che fa Cattaneo. In particolare, il secondo capitolo che analizza le radici storiche delle interdizioni che avevano subito nei secoli gli Ebrei serve a comprendere i meccanismi di esclusione dal tessuto produttivo subito dal popolo di Israele e il conseguente ricorso all’ambito della gestione del de­naro e dell’economia bancaria, arte nella quale, non a caso, sono invece specialisti gli svizzeri. Nei successivi capitoli Cattaneo si occupa degli ef­fetti economici delle interdizioni, mentre l’ultimo capitolo è una difesa ap­passionata degli Israeliti dalle solite accuse di avidità ed usura. Scrive Cattaneo “I nostri avi condannavano l’Ebreo all’usura e al baratto e poi lo maledicevano come usuraio e barattiere”.
Cattaneo conclude con la sua convinzione  che eliminando ogni tipo di in­terdizione si otterrebbe una progressiva reintegrazione degli Ebrei nel tes­suto sociale ed economico dal quale erano stati espulsi con l’accusa di es­sere dediti al sordido guadagno.
Naturalmente il testo va riletto con la consapevolezza che quasi due secoli hanno modificato testi e contesti. L’analisi di Cattaneo risente essa stessa di pregiudizi gravi, in particolare ignorando che la gran parte della popola­zione ebraica europea viveva in condizioni di estrema povertà, soprattutto nei territori ad est, e l’idea dell’Ebreo ricco e crapulone era uno dei tanti spettri agitati contro le masse nei periodi di carestia e miseria. La retorica bolsa dell’ebreo plutocrate capitalista e artefice del complotto per il domi­nio del mondo trova anche oggi i suoi cultori equamente divisi fra destra e sinistra. È la devastante estensione dell’idea che dalle proprie tenebre, come scriveva Manganelli, non si riesce a sfuggire.
Vi trascrivo alcune pagine dall’edizione Feltrinelli del 1962.
  Una circostanza assai notevole si è che in Francia sulla fine del secolo XIII si cominciò ad involgere nelle persecuzioni an­che i banchieri cristiani e massime i Caorsini e gli Italiani. Questi ultimi, fra le sventure degli Ebrei, avevano tratto a sé la miglior parte del commercio in Francia. Ma in seguito i loro crediti vennero più volte appropriati al fisco; le loro persone incarcerate in una notte e i ripostigli delle loro ricchezze sco­perti colla tortura. Sembra quindi che si prendesse di mira l’usura per sé; e coll’ardor delle crociate s’intepidisse anche l’odio contro la credenza israelitica.  Si erano aperte le scuole e iniziati gli studj. L’errore che “ogni interesse è usura” signor­eggiava le menti. Ma l’insegnamento delle leggi romane, risur­to nelle università, cominciava a ristabilire la legalità dell’interesse. Quindi si cercava di conciliare le opinioni estreme con sottili distinzioni di usure lucratorie e usure com­pensatorie, di lucro cessante e danno emergente, si cercava di palliarle con termini fittizj, con vendite simulate, con cambj e ricambj………………………………………..
Invalse le idee commerciali, ristabilita l’autorità della legge romana e diminuita naturalmente l’usura per l’abbondanza di capitali mobili ai quali il sistema feudale impediva di investirsi liberamente in terre, cessò anche il furor di popolo contro l’usura. I popoli, conosciuto il valore dei capitali, cominciaro­no ad aver cari i capitalisti. Gli israeliti ripullularono in ric­chezza e perciò in numero; ma avevano rivali e non furono più i soli dominatori del commercio universale.
L’odio contro gli Ebrei degenerò piuttosto in dispregio, senti­mento assai lontano dal sangue.
……………………………………………………………………
Nelle tenebre e nella ferocia del medioevo le popolazioni infe­lici, irritate dalla miseria, traviate dall’ignoranza trascorre­vano a farsi giustizia degli usuraj col sangue e la rapina. Gli Ebrei venivano cacciati da paese a paese ma l’amor del lucro diventata l’anima della loro esistenza li rendeva indomabili. ……………………………………………………………………
Fu allora che si stabilirono universalmente quelle ignominose esclusioni che da alcuni statuti non sono peranco espunte, ben­ché i popoli quasi arrossiscano di mostrarne ricordanza.
Esclusi dal diritto di possidenza e talvolta anche dal diritto di domicilio e di soggiorno; esclusi dalla parentela promiscua, ciò che non avviene in altre sette; esclusi quindi dalle affezioni in­time e dalla comunione delle cose e dalle eredità; esclusi dagli onori funebri, dalle armi, dalle magistrature, dagli studj libe­rali, dal libero studio della propria legge; esclusi dalle corpo­razioni fabrili e quindi dall’esercizio delle arti meccaniche; non potevano abitare sotto un tetto che ospitasse cristiani; se­vere leggi interdicevano ai cristiani il sedere a mensa, il giuo­care, il domestico conversare con loro. Non potevano tenere più servi; non servi cristiani perché era vietato; non servi ebrei  perché era prefisso il numero delle famiglie che avevano diritto di risiedere, e chi non era membro di una delle suddette famiglie doveva sgomberare; quindi le famiglie dovevano ser­virsi da sé.  Si volle relegarli al commercio dei cenci, interdi­cendo loro quello dei grani e delle altre cose necessarie alla vita; si vietò ai poverelli soccorsi da loro, di render loro un se­gno di rispetto. Erano relegati nella parte più fetida della città, che chiamossi ghetto, donde non potevano uscire se non in certi giorni e in certe ore; non potevano confondersi fra la folla nelle vie, perché la legge li obbligava a portare un segno di ignominia.