lunedì 26 novembre 2012

Racconto breve: 1348



Dicono fu per sortilegio, quando dal bosco rampicarono le erbe sulle torri, quando il cielo fu nero della notte a venire, che udimmo le parole.
Quando ogni altra voce fu sospesa, non corse lo zoccolo del cervo, e il cielo si tacque di preghiere e di tuono; quand’anche il lamen­tare dell’acqua sulle pietre del borgo si spense, allora udimmo le parole. Distintamente, rotolate come ciottoli dalla montagna, so­spese nel silenzio fra un balzo e l’altro. Non era il canto della gio­vanetta perduta nel dirupo, né la fame insaziata della bestia che, al limitare della terra di maggio, scrutava le luci nelle case, dove le nostre figure apparivano ombre, ombre come fummo e siamo. Ac­cendemmo i fuochi ché il maledetto non colpisse di nascosto, sica­rio fra le ombre che il vento spingeva, con crepitio di ramaglia. Nel bagliore della fiamma, protendemmo le mani, col gesto bene­detto.

Ancora a sentinella, sul varco del fienile restò l’agnello, che di sangue bagnò le porte, testimone che un giorno noi fummo i sal­vati.
Disse il saggio Chaim “Sono parole che non so comprendere, un suono antico di uomini caduti. Resti chiusa la porta e si pongano i segni e i lumi alla difesa. Sarà il soldato di cuoio e di ferro nutrito che porterà la forza; contro la voce che dal nulla procede, altro nulla si chiami”.
Nella notte nessuno cammina, nessuna parola si fa materia
nell’ombra, tutto è vano quando non si può vedere, né lo spirito corre nel buio.
Vano è il timore del nulla, ché ogni fantasma può apparire, ma nessuna parola si fa materia.
Sprangammo le porte e il calice d’argento del profeta fu posto sul desco, di vino e d’argento come fu comandato.
Fuori, nel cielo, le tre stelle portarono le tenebre; e un gelido vento sibilò dal bosco fin nella valle dove spense il luccicare dei bastio­ni, per sempre. Perché non c’è sentinella che vede nell’oscurità; lugubre era l’ombra che portava lamento da lontano, come pece che bolle, la veste nera del peccato, la fosca profezia della co­scienza.
Scivolò per le strade un orrendo fetore, di solfo, di demonio, di carcame che vomita sanie; una malsana resina che come un cancro alla carne si appiglia, coll’ugne s’attanaglia e squarta e squarcia, come alla giostra sbrana la zagaglia.
Prendemmo sale dalle botti, e con sale purgammo i figli, ma il nu­trimento cagliò sui loro visi di latte e di vermiglio, il marchio a fuoco, l’orrendo sigillo della peste nera.
Nera come l’orrida tenebra che la partorì, come il cuore spaccato del bue.
Coprimmo i pozzi rilucenti, che la morte non si guardasse, non si riconoscesse nello specchio sull’acqua;  shivà contammo, shivà contammo, un giorno dopo l’altro cominciando da capo.
Come in un sepolcro avvolgemmo il tallith sul nostro lutto.
                                           
Suonavano le campane da Worms, da Darmstadt, da Mannheim.
Cavalcarono i Cavalieri di Cristo, armati di lancia e d’onore del fuoco, che l’universo monda nell’olocausto.
Dal bosco giunsero urlando, con voce tonante al galoppo, come tempesta l’orda flagellò gli orti, scannò le bestie del pascolo. Ca­valcarono i Cavalieri di Cristo, scoperchiarono i nostri pozzi, così la morte si specchiò sull’abisso; non la peste ma gli uomini  ricon­segnarono alla terra quelli fra noi che erano ancora vivi.
Israel Eliahu

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