giovedì 4 aprile 2013

SHABATH 26 5773 / 5 -6 2013

Albert Benaroya: Shabath

ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  19.06
Havdalah             20.06
Per le altre località vedi  http://www.myzmanim.com/search.aspx 

PARASHAH SHEMINI: Vayqra 9-11
HAFTARAH SHEMINI: Shmuel II, 6,1 - 7,17


Shalom a tutti.

Riprende il ciclo ordinario delle Parashot dopo Pesach. In Sheminì il Signore detta le prime importanti regole della Kasherut, le regole dell'alimentazione ebraica, regole di purità, di santificazione, ma anche regole che rispettano un regime alimentare di sanità. Difficile separare questi aspetti, quello religioso e quello, per così dire, che risponde a categorie e tassonomie scientifiche. Per questi argomenti rimandiamo ad altre analisi o al volume di Di Segni: Regole alimentari ebraiche. Lamed Editrice
Oggi invece vorrei affrontare un argomento che si propone con forza in questa lettura della Torah. È un argomento difficile che coinvolge le sfere della religione, dell’etica, della mistica, della filosofia. Intendo la morte dei due figli di Aharon, colpevoli di non aver rispettato le leggi sui sacrifici che il Signore aveva dato. Di aver utilizzato un fuoco estraneo e non aver aspettato che il fuoco sacro ardesse l’olocausto. Perché colpire così negli affetti più cari una figura come quella di Aharon? Perché indurre dolore? Rav Dante Lattes avvicina la colpa a quella dello stesso Moshè di non aver rispettato le parole di D-o, di non aver avuto fiducia in lui e di aver percosso col bastone la pietra; colpa questa che, secondo l’ermeneutica biblica tradizionale, comporterà la sua morte prima di entrare nella terra che stilla latte e miele. Certo che questa analisi porta inevitabilmente a scenari diversi e molto complessi relativi alla questione del dolore di Giobbe e ad Auschwitz, al silenzio di D-o. Si potrebbe risolvere il lacerante perché dicendo hanistarot lAdonai Elohenu, le cose misteriose appartengono al Signore e non è dato a noi averne partecipata comprensione, sfuggono ad elementi di analisi razionale. Potremmo anche spiegare che le logiche umane non collimano con quelle divine e che le leggi che il Signore ci ha dato valgono per l’ambito umano e non certo per quello divino. La visione che ha l’uomo della storia nei suoi particolarismi affettivi e di coinvolgimento personale poco hanno a che fare con le dinamiche cosmiche e divine. Ma questo potrebbe arenarsi contro la teodicea: perché allora D-o entrerebbe nel corso degli eventi umani dettandoci regole, leggi, comportamenti, perché ci ha guidati fuori dall’Egitto?
È davvero il silenzio la forma metafisica del cosmo? È davvero dietro le parole di Moshè che Eleazar di Worms sconfessa la parola dell’uomo davanti a un D-o che è silenzio? Dovremmo dire davanti alla morte dei due figli di Aharon che c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere. Qui si ferma dunque la nostra capacità di intelligere? È questo infatti che raccomanda Moshè ad Aharon. Davanti a questo fuoco che divora i tuoi figli dobbiamo tacere. Abbiamo visto poco tempo fa come il fuoco sia una teofania; ora pare essere esso stesso la voce di D-o. Non vi sembri blasfemo, per molti commentatori anche lo shofar nel giorno di Kippur rappresenta per gli Ebrei la voce archetipale di D-o. Potremmo dire che questa incapacità di comprensione, questa assenza della parola di D-o è la tensione dialettica del silenzio fra la voce umana e quella divina. Che altro rimane a Giobbe se non la silenziosa attesa? Cito da Andrè Neher, L’esilio della parola, Edizioni Medusa:
C’è uno stretto legame fra silenzio e forme negative della creazione. La radice della parola damah è il silenzio del sonno della notte della morte … È il caso del silenzio di Aronne quando la morte istantanea e paradossale dei suoi due figli maggiori lo sorprende in uno stato di impreparazione totale. Possiamo scorgervi, certo, una sfumatura religiosa di sottomissione alla volontà divina, ma è molto più probabile che con questa breve frase coniata come una roccia scoscesa, il linguaggio biblico abbia voluto rendere il momento psicologico della pietrificazione. Come il patriarca Giacobbe, Aronne ha avuto un momentaneo arresto cardiaco, una sospensione di ogni reazione intellettuale o morale, un’identificazione del suo essere umano con la sua condizione fisiologica. Aronne in quel momento non era più che una statua di pietra. Quel che risulterebbe notevole, se accettiamo questa esegesi, è che la pietrificazione di Aronne sia dovuta non all’incidente mortale ma alla spiegazione teologica che Mosè aveva tentato di dargli: “È da chi mi si avvicina che io sarò santificato”. Come Giacobbe, Aronne sarebbe meno sconvolto nelle sue reazioni umane dal mistero della morte che dalle interpretazioni che ci si sforza di darne. E noi toccheremmo con mano una attitudine biblica che l’esempio di Giobbe illustra in maniera notevole, ovvero quella per cui il silenzio di D-o nell’evento è meno penoso del suo silenzio nell’esegesi, e che l’uomo può accettare che D-o taccia ma non che lasci parlare altri uomini in sua vece...
Qualunque sia il dramma intimo di Aronne è innegabile che il testo biblico si serva della radice damah per stabilire una stretta connessione tra la nozione di silenzio e quella di morte.
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Rav Elia Kopciowski, pur riconoscendo la gravità di una deviazione, di una iniziativa personale rispetto a quelle che erano state le prescrizioni divine, ammette che la Torah non spiega nello specifico qual è la profonda gravità della inosservanza. Si lascia intuire come, nonostante avessero trascorso 7 giorni nella Tenda della Radunanza, alla presenza di Dio in preparazione del culto, i due figli di Aharon si erano lasciati andare ad un arbitrario utilizzo del fuoco, la cui valenza sacrale ormai conosciamo. Il rischio poteva essere propriamente quello di trasmettere il senso della possibile non obbedienza al popolo adunato, con conseguente rischio di un ritorno ad un culto idolatrico. Se proprio loro, Sacerdoti, avessero deviato dal cammino indicato che avrebbe fatto il popolo? Tuttavia Kopciowski azzarda un’ipotesi partendo da una disamina lessicale. Il testo dice: “E un fuoco uscì dalla presenza del Signore e li divorò: ed essi morirono davanti al Signore”. Perché non si limita a dire Ed essi morirono? Scrive il commentatore: ‟La morte dei figli di Aronne fu una vera morte materiale, fisica o piuttosto una morte spirituale di autorevoli personalità che avevano perso il diritto di comparire davanti all’eterno? ... Ma, ci domandiamo, la perdita di un ruolo di eccezionale importanza quale quello del sacerdozio e la perdita della fiducia del Signore che questo ruolo aveva loro affidato ed ora li rifiuta allontanandoli dalla propria presenza, non può essere paragonata ad una morte morale di tale eccezionale gravità da essere ancora più grave di una morte fisica e tale da giustificare un atto di lutto da parte dei familiari? È naturalmente un’ipotesi azzardata, che vuole tuttavia stimolarci a dedurre, dalla severissima punizione che colpì Nadav e Avihù, un ulterione insegnamento morale”.
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In Shemot 33, 19 il Signore dice a Moshè: “Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia”. Il Talmud commenta questo passo dicendo che il volere divino è imperscrutabile, che la volontà divina è indicibile e che non si può affrontare il problema della teodicea in termini di esegesi umanamente razionale. Possiamo riconoscere gli attributi divini come giustizia, bontà, onnipotenza ma non ci è dato conoscere ontologicamente la realtà divina e dunque il senso del suo agire nella storia.
Il trattato delle Benedizioni del Talmud mette in risalto la consequenzialità delle pene e della sofferenza ai comportamenti sbagliati, al peccato. In Geremia 3, 21 si invita a scandagliare le proprie vie, a fare teshuvà. Se non si trova una relazione fra questa analisi e la sofferenza allora si deve far dipendere la sofferenza dalla non osservanza della Torah, che è una duplice guida dei comportamenti verso D-o e di quelli verso gli uomini. È evidente che dobbiamo sottendere due sfere diverse dell’etica ebraica. La Torah ci guida a tradurre in atto i comportamenti giusti, in caso contrario dobbiamo attenderci la punizione, la sofferenza.Shemot 15, 26: Se ascolti attentamente la voce dell’eterno, che è il tuo D-o, e fai ciò che è giusto agli occhi suoi e porgi orecchio ai suoi comandamenti e osservi tutte le sue leggi Io non ti manderò addosso alcuna delle malattie che ho mandato addosso agli Egiziani perché io sono l’Eterno che ti guarisco.
Così recita il Salmo 39, 3: Io divenni silente, mancante di bene il mio dolore divenne avvilente. E nella terza lamentazione di Geremia troviamo la dolorosa anatomia di chi ha abbandonato la strada della Torah, ma che in fondo ritrova la speranza nella teshuvà. Possiamo mai dire quale sia il senso di quel mortaio in cui D-o pesta e trita? Conosciamo forse il destino ultimo degli uomini, o di Nadav e Avihù, i figli di Aharon? Saadia scrisse che il Signore infligge punizioni su questa terra per le poche azioni non giuste di chi è fondamentalmente giusto con il fine di premiarlo nel mondo a venire. Il Signore, come nel caso di Giobbe non dà ragione delle pene che Giobbe sta subendo e in questo modo, scrive Saadia, la sua fede non viene banalizzata nella prova. In fin dei conti anche il sacrificio di Ytzchaq può essere letto come una prova di ubbidienza ma anche di sofferenza di un padre davanti al più orribile dei crimini.
Deve essere chiaro tuttavia che mai si deve essere tentati dal senso della predestinazione. L’uomo anche nel peccato agisce per libero arbitrio, per libertà di scelta ma, secondo Maimonide, un atto di volontà di D-o potrebbe cambiare la condizione del singolo individuo senza che noi ne possiamo comprendere il senso; Isaia: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie.
Se non possiamo comprendere questa via come possiamo giudicare quella che ai nostri occhi sembra una punizione eccessiva, come nel caso dei figli di Aharon: sappiamo forse quel che il Signore ha in serbo per loro?In Re I, 13-14 leggiamo che la disubbidienza alla parola divina genera una condanna senza appello ma noi non siamo in grado di comprendere il perché; tuttavia dobbiamo credere nella Sua giustizia. Potrebbe essere stata la loro morte un bene in quanto veicolo di salvezza per tutti gli uomini, così come la morte dolorosa degli Egiziani, figli anch’essi di D-o, lo fu per Israele? Possiamo credere che i nostri pensieri possano, davanti alla maestà di D-o, comprendere il senso dell’esistere in questo universo che nemmeno riusciamo a circoscrivere, davanti a quella dimensione che nemmeno riusciamo a immaginare o a definire? La Torah ci ha dato gli strumenti per vivere nella giustizia davanti ai nostri fratelli, agli altri uomini, al mondo che ci ospita, al corpo che ci contiene e che ci è stato affidato, non altro per comprendere il senso ultimo della creazione.

Shabbat shalom
Israel Eliahu

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