Shalom a tutti.
Si dice sempre che l’ebraismo è la religione del fare. Ha una sua concretezza che si radicalizza negli atti performativi del quotidiano, nella gestualità concretamente finalizzata ad atti di una liturgia personale e collettiva. La legge mosaica dispone e regola i rapporti tra gli uomini, degli uomini col contesto sociale nel quale vivono, si nutrono e si riproducono. Il Signore determina con le Sue leggi anche le geometrie del culto, gli arredi, i tessuti, fino ai paramenti del Cohen hagadol. Tutto è norma, c’è quasi una matericità predominante rispetto al governo spirituale del mondo. Nell’ortoprassi ebraica l’aspetto spirituale è intimamente connesso con quello dell’agire. Anche la preghiera richiede comportamenti codificati che segnano l’appartenenza e la rendono manifesta. Pensate agli tzitzioth; sono simbolo del cosmo che ci conchiude e nello stesso tempo segno che ci proietta all’esterno, che svela la nostra identità. La natura comunitaria della vita ebraica sembra essere l’oggettivazione di un cammino condiviso sulla cordonatura delle leggi di cui ci nutriamo e nutriamo gli altri.
Anche il fuoco pantamorfo, volatile e sfuggente, non riesce a verticalizzare il pensiero se non nei tracciati della storia ebraica o delle teofanie toraiche. Tutto pare concretizzarsi nei gesti, nella storia nell’accadere.
Nella nostra parashah troviamo le regole anche per la miscela di oli profumati, unguenti sacri, che dovevano servire alla santificazione del Tabernacolo, degli arredi e delle persone. E cosa c’è di più aereo, di più impalpabile e volatile del profumo?! C’è scritto nel Talmud che il profumo è l’unico nutrimento dell’anima, forse perché come essa indefinibile, aerea, spirituale appunto. La sua sottigliezza e capacità di penetrazione ne fanno un elemento sub limine.
L’utilizzo di olii profumati conferiva all’unto una consacrazione, una distinzione. Tanto che si cominciava l’unzione dalla testa a significare un cambiamento di condizione. Come se una forza superiore si trasmettesse con questi gesti al designato. Aveva dunque una connotazione religiosa molto forte, tanto che anche la composizione aromatica sembra corrispondere ad una alchimia mistica.
Dunque l’ineffabile, il volatile si fa portatore di segno, quello che consacrerà i Re, nel verbo del profetismo, ed il Mashiach.
Ma un'altra dimensione dello spirito invisibile, impalpabile, affronta la teologia ebraica: è quella dell’assenza, della inconosciuta essenza di D-o che chiede di essere custodita nello spazio, anche se non rappresentabile. Definire una assenza fisica in una dimensione concreta come quella dello spazio è una forma di ossimoro complesso. Il pensiero occidentale greco-cristiano pone al centro dello spazio la presenza di D-o, la sua immagine intelligibile, la forma che ingabbia il segno, per l’uomo soggetto conoscente. Il pensiero ebraico, nella dimensione che è la parola, corregge la dimensione temporale nel vuoto dell’assenza, è la parola che si fa costituente della forma, come nella qabbalah visiva, nella scrittura che si fa di-segno.
Il Mishkan contiene il pensiero di D-o, la sua essenza, la sua assenza.
 
Shabbath shalom
Israel Eliahu