giovedì 19 dicembre 2013

SHABBATH 18 TEVET 5774 / 20-21 DICEMBRE 2013 - SHEMOTH



ORARI DI SIRACUSA

Accensione  ore 16.26
Havdalah          17.29
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PARASHAH SHEMOTH: Shemoth 1,1 - 6,1
HAFTARAH: Yrmiyah 1,1 - 2,3  

Shalom a tutti.
Con Shemoth ci introduciamo nel secondo libro della Torah, tradotto in Italiano Esodo. Comincia una nuova era per il popolo Ebraico, quella dei patriarchi lascia il posto a quella che vede un popolo intero di discendenti della grande stirpe di Abraham, che si determina in una fuga dalla prigionia verso la più grande delle conquiste, quella della libertà. Un popolo che attraverso il suo profeta Moshè Rabbenu incontra D-o, un D-o che si manifesta, che interviene nella storia, che guida spiritualmente e fisicamente la marcia attraverso anni di peripezie che sono anche una metafora del nostro cammino verso l’autodeterminazione.
Diciamo che ogni giorno dobbiamo conquistarci la libertà, affrancarci dal giogo della prigionia, anche quella che imponiamo a noi stessi. L’Egitto è la metafora di tutte le forme di condizionamento, di autolimitazione, che quotidianamente dobbiamo affrontare.
Ma c’è un’altra riflessione da fare. La Torah ci racconta di un popolo che dopo avversi avvicendamenti della storia conosce i gioghi della schiavitù, dopo essere stato, grazie all’autorità di Giuseppe, una nazione che aveva goduto di privilegi pur vivendo in una terra non propria. Dopo la caduta della dinastia Hiksos, circa 1600 avanti l'era volgare, un altro re, un altro faraone succede a coloro che avevano protetto gli Ebrei e comincia un periodo buio della nostra storia. Buio come altri che gli succederanno, l’esilio di Babilonia, la diaspora dopo la caduta del secondo tempio.
Dante Lattes scrive che possiamo cominciare a parlare di antisemitismo.
Gli Ebrei in Egitto avevano goduto di privilegi, appartenevano ad una classe sociale mediamente elevata. Mentre gli Hiksos erano una dinastia straniera di tribù beduine e potevano accettare di buon grado la presenza di una popolazione eterogenea, con la nuova dinastia autoctona si ripropone una gestione del potere di stampo nazionalistico che vede nella vita ebraica una forma di usurpazione di un diritto della terra e un pericolo per possibili alleanze politiche e militari con forze straniere. Così progressivamente si arrivò ad una limitazione delle libertà fino alla schiavitù.
Non è difficile riconoscere in questo percorso il paradigma delle altre sofferenze ebraiche, in modo particolare nella diaspora. Quando l’assimilazione portava alla crescita sociale e alla partecipazione attiva alla gestione della ricchezza e della cosa pubblica, gli Ebrei venivano e vengono accusati di essere un cancro all’interno di un sistema. È la percezione razzista della diversità.
Così è stato nella Spagna dei Re Cattolici, così nella Germania e nella Felix Austria trascinata nella vergogna della storia dal Nazismo.
Chiusi in coagulati umani a difendere la nostra identità, quello che è stato ritenuto segno di ostilità era ed è ancora semplicemente la volontà di sopravvivere a noi stessi con l’integrità della tradizione, con la nostra fede, le nostre costumanze proprio per evitare pulsioni di assimilazione, progressivi assorbimenti. Perché il giudizio divino sulla promiscuità è quello di ʽavodah  tzara, di idolatria, di avvicinarsi a costumi e credenze non conformi alla nostra. Noi abbiamo sempre tessuto l’elogio della diversità. Non ci interessa la condivisione in materia sociale né tantomeno religiosa, quando questa comporta la perdita del nostro essere soggetti dell’ebraismo.
Se siamo ancora qui, unico popolo sopravvissuto ai millenni, lo dobbiamo proprio a questi meccanismi di difesa. Questo non vuole dire autoescludersi dalla società civile, né accettare quello stato che un pessimo vocabolo indica come tolleranza. Tollerare è una forma di sopportazione: permettere benevolmente qualcosa di negativo dall’alto di una presunta superiorità che consentirebbe di impedirlo.
Abbiamo sempre chiesto di essere diversi con pari diritti poiché nostra regola è Dina de malkhutà dinà. La legge del regno, dello stato è legge. Noi non dobbiamo imporre le nostre regole a nessuno né intendiamo condizionare altri comportamenti in nostra funzione. Anzi, la legge dello stato nel quale viviamo, che ci ospita è la legge alla quale noi sottostiamo, fermo restando che debbono essere garantiti i principi basilari della Torah. I nostri tribunali, pur operando nel nostro ambito sottostanno alla legge dello stato, non intendono sostituirsi ad essa.
Ma cerchiamo di notare una differenza. Mentre la bimillenaria persecuzione cristiana degli Ebrei fondava la sua feroce canea su questioni religiose (gli assassini di Cristo, del protomartire Stefano etc) nella discriminazione operata dagli Egizi la questione religiosa è assente. Lo stesso è valso per la Germania nazista. Al di là della mistica religiosa nazista, dalla lancia di Longino al Graal e a tutte queste tumefatte reliquie, la Germania nutriva il suo odio di rivalse sociali con argomentazioni del tipo gli Ebrei sono ricchi, cospirano politicamente, affamano il popolo tedesco, sono il nemico interno della grande Germania.
Negli anni 50 fu fatta un’indagine a tappeto sul razzismo e l’antisemitismo in America. Le risposte variavano da: il denaro è il loro Dio, controllano la finanza e gli affari, sono astuti ed abili, sono intelligenti, sono poco socievoli, cospirano contro gli stati che li ospitano, vogliono il potere del mondo etc etc.
Come vedete sono completamente assenti pregiudizi e rivalità di carattere religioso.
Questi stereotipi sono gli stessi che troviamo nell’Italia fascista ma sono gli stessi che il razzismo europeo scarica su Israele, dunque l’equazione antisionismo = antisemitismo è assolutamente pertinente.
Individuare nei contesti le radici esplicite dell’antisemitismo è difficile.
La psicoanalisi ci può, se non aiutare, almeno dare alcuni spunti di riflessione. Sempre negli Stati Uniti, hanno recentemente fatto una ricerca molto approfondita sull’omofobia. Ora, è risultato che l’aggressività maggiore era propria di persone che avevano avuto turbe legate alla propria ambiguità sessuale, in altre parole avevano paura di qualcosa che era dentro loro stessi.
Vi cito lo scritto di Manganelli che già avevamo pubblicato sul blog recentemente:
“Noi sappiamo che si ha paura di ciò che sta dentro di noi, non di ciò che ci è estraneo. Se l’Occidente ha combattuto gli ebrei, superando in questa lotta ogni abiezione di cui mai è stato capace, ciò viene solo dal fatto che l’Occidente ha paura della propria interiore domanda ebraica, quella continua, eterna, mite, irriducibile domanda che lo insegue, che lo costringe a far ciò che non vuol fare, capire se stesso, oltre quei limiti che la sua cultura, la sua ansia di protezione, la sua paura di esistere gli impongono.
l’occidentale ha il terrore dell’altrove, odia l’altrove e tuttavia sa nelle sue viscere geroglifiche che solo l’altrove custodisce il suo significato (…) come se gli ebrei guardassero da un’altra parte, verso cose che non osiamo guardare”.
Scrive Allport in La natura del pregiudizio:
“L’antisemitismo è sostenuto dal pensiero teologico cristiano, poiché la Torah asserisce che gli Ebrei sono il popolo eletto da D-o essi devono essere perseguitati fino a quando non riconosceranno il Messia.
A questo punto la spiegazione teologica invita ad un’analisi psicologica più sottile. I cristiani stessi desidererebbero fuggire alla rigida etica evangelica (che ovviamente non riguarda scritturalmente gli Ebrei) e secondo le teorie psicanalitiche questo impulso può generare disprezzo e ostilità nei propri stessi riguardi. Dunque si odia l’Ebreo che è in sé. Odiando l’Ebreo trasferisco su lui la mia colpa. Proprio come si faceva col capro espiatorio.
Freud estendeva questo ragionamento accennando al desiderio represso di uccidere il padre (comune a molte culture, pensate a quella greca e al mito di Edipo) e quindi per estensione anche D-o, il grande padre. Ora, se dal punto di vista cristiano gli Ebrei sono gli uccisori di Cristo, sono anche uccisori di D-o. Non potendo riconoscere ed ammettere in sé stessi questo impulso, si trasferisce sull’Ebreo, già colpevole di deicidio.
Ripeto, forse sono solo suggestioni, la realtà, anche quella contemporanea è più drammatica e meno cerebrale. Il male è in agguato e se all’epoca di Moshè Rabbenu la meta era Eretz Israel beh… sappiate che lo è anche oggi.
Tornando alla nostra parashah Shemoth, dunque possiamo leggere la schiavitù in Egitto non solo come la schiavitù spirituale con tutti i rischi che comporta di dissoluzione della nostra identità (vi rimando al testo della conferenza sull’assimilazione) ma anche il paradigma di tutti gli antisemitismi di due millenni della Diaspora.
Shabbath shalom
Israel Eliahu

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