domenica 17 novembre 2013

Racconto: LA VENTISETTESIMA CREAZIONE di Israel Eliahu



Ogni volta oltre i vetri c’era il suo volto. Scomposto in altri volti riflesso, ad altro riflettente sovrapposto, si diffrangeva in segmenti, in scaglie acuminate della sua voce tagliente, della sua bocca maledicente.
“Vattene – io gli gridavo – canzone dello sheol. Tu non sei di questa terra. Fuggito ad altri cosmi incompiuti. Nato senz’ombra nel ventiseiesimo mondo, malriuscito, ricacciato nel buio universo, senza luce, senza volta del firmamento”.
A volte lo minacciavo col pugno e sputavo sullo sdegno e la paura che sempre mi portava come dono. Sentivo il suo passo veloce lungo il muro, ma ogni vetro ne custodiva la figura.
Vattene gli dicevo – questa casa è il Beth consacrato al Signore, porta il segno sullo stipite e brucia sempre una fiamma.
Ma lui contro i vetri batteva le unghie, a malapena traluceva la sua sagoma scura. Rigurgitava gli arcani di una lingua mai udita e altre fiamme luminavano sulla fronte come ferite, sulla barba trapuntata di bianco.
Mai, neppure la notte trovavo silenzio. La sua anima nera ronzava sul mio sonno, avevo dimenticato la pace.
Non ho figura, non ho figura, maledetto, che ti spalanchi la carne e ti offra al grido immenso della notte, che nelle acque ribaltate del tuo mondo ti sprofondi. Nessuno dopo le generazioni porterà il tuo seme –.
Io la notte pregavo, dilaniavo le pagine, i salmi furono mio nutrimento. Sempre fu il mio cantare, di pietà e d’amore.
E lui taceva nelle ombre, ascoltava per trarre giovamento, finché non ne conobbe la lingua, per fare di me suo controcanto.
Di giorno mi pareva d’avvertire il suo respiro d’animale, ansante oltre la porta, ma dalla grata solo la strada assolata e il suo fermentare portavano notizia del brulicame umano.
Sempre baciavo la mezuza per consacrare il mio mondo che dentro queste poche mura rendeva l’onore del passo alla vita che mi resta.
Non puoi entrare qui – gli gridavo, ma la voce tintinnava di echi e di riflessi, ed io stesso non ne coglievo più il senso – questo è il mio santuario – dicevo.
Una sera d’inverno, leggevo il salmo ventidue, com’è d’uso piangendo, fu allora: “Ma io sono un verme e non un uomo, obbrobrio dell’uomo e disprezzato dalle nazioni. Tutti quelli che mi vedono ridono di me, aprono la loro bocca in una smorfia e scuotono il capo” fu allora che sentii il suo fiato ancora più d’appresso, dietro la porta, sentii le sue fauci rivolte contro me, come nel salmo il leone in agguato.
Avvertii i suoi occhi scrutarmi, ma quando mi voltai non vidi che ombre del fuoco contro i muri, nessuna polvere mulinare nel vento, né orme del suo passo. Ero solo, circondato dai cani della notte che latravano nelle tenebre.
Così il mio cuore si sciolse come cera nel sole. Piantai salici e palme e mirto e ricino, nei cortili, che dalla terra traessero sostanza e confondessero le vie che conducevano alla mia porta, ma la frescura e l’ombra diventarono la sua dimora, mi pareva di sentirlo dormire nel giardino ad attendere il mio sonno per ogni sua nuova veglia. Nascosta dal verde la mia casa divenne un asilo di silenzio per il suo cantico nuovo. Di me dimenticarono le genti, gli uomini si allontanarono dalla mia strada, la mia eredità fu la sua cantilena e la mia umiliante sottomissione alla paura.
E lui mi ripagò con le sue beffe, mi nascose ai nemici e alle genti straniere che portavano stoffe colorate e nardo e calamo, il galbano e l’incenso.
Nelle lunghe veglie della notte intonai il tuo nome Signore, ma la sua voce stridula, accompagnò a discanto la mia voce, come bisbigliano le donne nella stanza del morto.
Le ombre non si fanno prigione, così il mio cuore decise che era tempo per scrutare il volto del nemico. Accesi le braci ad ogni angolo, il rosso styrax, il balsamo giallo di Siria, l’incenso del deserto, il bianco d’Arabia per dare corpo all’aria e vedere la figura del mio persecutore prendere forma e natura, dacché per uccidere il nemico bisogna vederlo.
Io ti invocai nel giorno del dolore Signore strappa la mia anima dalla follia perché continuarono le risa dello scherno, appena udibili all’orecchio. Presero forma le figure del sogno, vidi fuggire gli spiriti del padre e della madre, della donna che di me fece culto, del mio maestro antico, gli amici perduti della giovinezza. Rimasi solo in un dolore immenso, in un dolore immenso, cullato dalla nenia triste del maledetto, perché per uccidere il nemico bisogna conoscerlo.
Allora murai le finestre, e le porte, ogni fessura della pietra non entrerai qui, questa è la mia anima consacrata, non sentirò la tua voce in questo silenzio, non vedrò la tua ombra in questo buio –.
E in questo buio presi dimora.
Fu allora che sentii il suo respiro accordarsi al mio, nascosto con me in questa tomba, a distillare le ore e i giorni, muffe del tempo di verde e d’argento.
Dalla profondità di questo orrido io non risorgerò. Qui non c’è vento, non c’è parola, in una lingua straniera legge la preghiera di ogni giorno, la carogna che ha fatto nido sulla mia schiena.
Non morirò, vivrò per dare testimonianza in questo carcere, muta la voce che fa partorire le cerve. Il ventesimo giorno nel mese di Sivan dell’anno 5771 del ventisettesimo mondo creato.

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