giovedì 21 novembre 2013

SHABBATH 20 KISLEV 5774/ 23 NOVEMBRE 2013 - V A Y E S H E V


ORARI DI SIRACUSA
Accensione  ore  16.26
Havdalah           17.26
Per le altre località clicca  Q U I

PARASHAH VAYESHEV: Bereshith 37 - 40
HAFTARAH: ʽAmos 2,6 - 3,8

Shalom a tutti.
Come sempre cerchiamo di cogliere nella Parashah della settimana lo spunto per una riflessione.
Dante Lattes, nella sua derashah in Nuovo Commento alla Torah, segnala che nel verso XXXVII, 35 “Io voglio scendere da mio figlio, piangendo, nello Sheol” si possono scoprire le tracce della credenza dell’immortalità dell’anima… Frase che potrebbe significare che Egli vuol continuare per tutta la vita, fino al suo ultimo respiro, fino al suo ultimo giorno, a piangere il figliuolo suo e che nulla può confortare il suo dolore; oppure che anche nella fossa continuerà a piangerlo. Ma ciò non può esaurire il contenuto della frase “io voglio scendere da mio figlio nello Sheol” per cui si deve ritenere che Giacobbe credeva di ritrovare un giorno suo figlio nello Sheol dove i trapassati avevano il loro soggiorno e che solo allora avrebbe cessato di piangerlo”.
Se noi consideriamo il testo Toraico vedremo che mai si parla di escatologia o di sopravvivenza dopo la morte. Anche la giustizia retributiva è a breve corso. Se tu obbedirai ai miei precetti io ti darò la rugiada, le piogge, farò crescere i tuoi raccolti. Ti darò abbondanza di figli e prosperità. Non c’è mai un premio per una vita futura.
Ciononostante, sostiene Elia Benamozegh, il grande Rabbì, teologo, e filosofo di Livorno, l’intero Tanak è costellato di “indizi” che rimandano ad una credenza della sopravvivenza dell’anima dopo la morte nonché ad una distinzione netta fra corpo ed anima. A volte il corpo viene chiamato campana e l’anima il battaglio (Ber. 41,8) a volte fodero e l’anima una lama, oppure l’anima viene paragonata ad un liquido contenuto in un vaso.
Si riteneva che l’anima, intesa come quel nishmat chaym che D-o aveva insufflato nella materia, trasformando l’uomo in un nefesh chayah, morisse con il corpo: “I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno” (Yeshaʽyahu 26,14).
In Qohelet cinicamente non si trova speranza di un altrove: “Tutto viene dalla polvere e nella polvere ritorna”.
Insomma, nell’uomo corpo e anima sono indissociabili, quando muore l’uno muore l’altra. In effetti, dopo la morte, non si parla nemmeno più di corpo ma solo di cadavere.
Torniamo a Benamozegh che a proposito del passo della nostra Parashah scrive: “Giacobbe non può certo alludere alla tomba stessa dato che riteneva il figlio sbranato dalle belve e quindi il suo corpo non poteva certo riposare accanto al suo”.
Comunque, i passi dove si può evincere di una sopravvivenza dopo la morte sono, secondo il livornese, moltissimi. Per questo però vi rimando alla lettura dei testi di Benamozegh.
Vi ricordo che anche quando Moshè acquista la grotta di Machpelah pensa ad un ricongiungimento di Sarah con gli avi.
A ben considerare, il tessuto culturale e religioso dei popoli semiti nel quale matura la vicenda ebraica è permeato di una religiosità che rimanda ad una vita oltre la morte e alla sopravvivenza dell’anima. Questo tuttavia non ci esime dal considerare che comunque il Signore non ne fa menzione esplicita.
Testi come “Io faccio morire e faccio vivere, io ferisco e risano” (Dev. 32,29) hanno una soglia di ambiguità semantica che lascia propendere per diverse interpretazioni. Anche il fatto che in ebraico non ci sia un singolare per vita ma solo il plurale chaym, può lasciare intendere sia una molteplicità esperienziale come nascita, pubertà adolescenza maturità vecchiaia, sia una possibilità di vite successive. 
Comunque, parliamo sempre di Torah, semmai si pensava ad una forma di sopravvivenza in modo molto confuso e velato. Dice ancora Qohelet: “I vivi sanno che moriranno, i morti non sanno niente”.
Anche il luogo stesso dei morti è ambiguo. Viene chiamato Sheol, cioè abisso, ma di che si parla? È il sepolcro o un luogo dove vanno i morti? A volte si trova anche l’espressione sachat che vuol dire fossa.
In Ezechiele, ci ricorda Rav Caro in una delle sue lezioni, si parla di una terra sottostante, ma potrebbe sempre riferirsi all’inumazione, in Giobbe si parla di terra dell’oscurità. Chi nello sheol canta le tue lodi? Dunque nel periodo Toraico non si può parlare di al di là né di un'anima distinta dal corpo. Tutti ci si riduce come larve a mangiare polvere nello sheol.
Soltanto nella contaminazione con la cultura greca si comincerà a profilare una filosofia sull’immortalità dell’anima.
Probabilmente solo nel secondo secolo, era antica, si trovano tracce di questo nuovo e rivoluzionario elemento: “Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno. Gli uni alla vita eterna, gli altri alla ignominia perpetua (Daniel 12,1-2).
Teorie sulla sopravvivenza dell’anima, come quella contenuta in Maccabei 7,14, troveranno una forte opposizione da parte dei Sadducei proprio perché estranee al corpo Toraico ma troveranno accoglienza presso i Farisei e anche nella componente ebraica che sfocierà nel cristianesimo.
In epoca medioevale molte di queste teorie troveranno accoglienza nella mistica ebraica. Si definiranno i concetti di anima ma sempre in modo misterioso e con alcune sfere condivise da varie scuole, ma non da altre.
Quella che segue è una sintesi:
Nefesh cioè l’anima vitale, condivisa anche con gli animali. La parte inferiore, l’istinto. Si informa al corpo al momento della nascita.
Ruach Lo spirito. Che governa l’etica, la forza morale che discerne e considera.
Neshamah la parte intellettiva e spirituale dell’uomo, sede della conoscenza e della coscienza.
Chayyà La parte dell’anima che consente di partecipare al senso spirituale superiore della divinità.
Yechidah ovvero l’unica, L’anima più elevata che si ricongiunge al creatore .
Questi concetti vengono diversamente espressi se formulati nello Zohar o in altri testi.
La prima sistemazione ordinata la troviamo in Maimonide che nella Guida dei perplessi rilegge in chiave aristotelica la questione dell’anima e della sopravvivenza oltre la morte. Aristotele, lo ricordiamo, aveva individuato un’anima vegetativa, una sensitiva e una razionale, mentre Platone aveva distinto in anima concupiscibile, irascibile e intellettiva.
Sarebbe lungo vedere ulteriormente il dogma della resurrezione dei morti (techiyat hametim), la teoria della trasmigrazione delle anime (gilgul neshamot)  nata in ambiente cabbalista. Si ha la sensazione che tutto sia maturato da contaminazioni con la mistica cristiana ed islamica ma che in fondo non ci appartenga.
Vi trascrivo due opinioni.
Rav Luciano Caro:
Un Ebreo il quale in buona fede sostenesse di non credere assolutamente alla sopravvivenza dell’anima e che con la vita terrena sia tutto finito, nonostante quanto dice Maimonide, è comunque perfettamente Ebreo. Nessuno può essere giudicato per quello che crede o non crede (in questo ambito). Maimonide ha scritto queste cose perché è stato costretto in qualche modo dalla situazione del tempo, ma questo non fa parte della dogmatica ebraica.
Il nostro Rav Scialom Bahbout intervenendo ad un Convegno (vi trascriveremo appena possibile il testo del discorso) ha esordito dicendo:
È molto difficile parlare della questione dell’anima, perché in realtà l’ebraismo non si occupa molto di argomenti “teologici” ma si occupa più di aspetti pratici e quindi, quando parliamo di queste cose parliamo sempre di aspetti che sono molto discutibili. Vi sono molte posizioni per quanto riguarda gli aspetti teologici mentre per quanto riguarda gli aspetti pratici c’è una sostanziale convergenza per cosa bisogna fare e cosa non bisogna fare; per quanto riguarda invece la riflessione sugli aspetti più teologici invece vi sono molte opinioni.
Dunque prima di avventurarci in una dogmatica ebraica riguardo alla dottrina dell’anima e dell’oltre vita è meglio ben conoscere quanto è scritto nella Torah e ricordare che Le cose occulte appartengono al D-o e a noi appartengono le cose rivelate
Shabbath Shalom
Israel Eliahu


Nessun commento:

Posta un commento